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Ecco perché il tramonto di “Quota 100” può costare più del previsto

 

Secondo l’Ufficio parlamentare di Bilancio negli ultimi mesi del 2021 potrebbe scattare una corsa agli sportelli Inps di chi non ha colto prima l’opzione sperimentale. I risparmi stimati per quell’anno in 1,3 miliardi potrebbero scendere a 600 milioni. Cruciale il tasso di rifiuto delle domande, la propensione dei lavoratori al ritiro e l’incertezza sul dopo. Il nodo dei lavoratori “silenti”

di Davide Colombo

12 dicembre 2019


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3′ di lettura

In coda il veleno. Negli ultimi mesi del 2021, quelli in cui ci si avvicinerà al tramonto dei pensionamenti agevolati con soli 62 anni e 38 di contributi minimi, potrebbe materializzarsi una delle più classiche corse all’italiana dell’ultimo minuto agli sportelli di Caf e patronati per cogliere l’opzione lasciata in sospeso. Lo ipotizza l’Ufficio parlamentare di Bilancio nel suo ultimo report. I tecnici dell’UpB parlano di “effetto soglia/discontinuità”: se all’ultimo momento si rifacessero vivi tutti i lavoratori che nel 2020 non hanno scelto di pensionarsi con “Quota 100”, i risparmi previsti in 1,3 miliardi potrebbero ridursi fino a 600 milioni.

Un alert da tener in conto
Tra due anni il governo dovrà fare i conti con una clausola di salvaguardia Iva attualmente fissata a 25,8 miliardi, e dunque un ammanco ben superiore a mezzo miliardo sul fronte della spesa per pensioni potrebbe creare qualche problema. L’UpB fa anche un’ipotesi più prudenziale, ovvero che la corsa degli ultimi mesi si determini con una propensione media al pensionamento del 65% anziché del 100%, nel qual caso la minore spesa scenderebbe a 840 milioni con un tasso di rifiuto delle domande presentate all’Inps del 10%. Il tasso di rifiuto è l’altra variabile considerata, e scenderebbe di qualche punto dal 14% registrato in media nel primo anno di sperimentazione in virtù della maggiore conoscenza acquisita su questa opzione di uscita sperimentale. Nel 2020, per esempio, se le domande respinte si fermassero al 10% la minore spesa si ridurrebbe di 50 milioni (sui 2 miliardi stimati) mentre nel 2021 questo solo fattore peserebbe per 100 milioni.

Il costo dell’incertezza
L’altra variabile cruciale si chiama incertezza. Oggi sappiamo già che senza interventi correttivi alla vigilia del 2022 i nati entro il 1959 saranno gli ultimi ad aver avuto la possibilità di usare “Quota 100”. A parità di contributi versati, 38 anni, un lavoratore che compie il 62esimo anno dal gennaio del 2022 in avanti avrà uno scalone di cinque anni da scontare prima di arrivare alla pensione di vecchiaia (a 67 anni) o di anzianità (43 anni). E questo potrebbe pesare sulla corsa finale agli sportelli.

Il dubbio dei “silenti”
Ancor più l’effetto incertezza conta se consideriamo il punto di vista dei “silenti”, ovvero coloro che hanno maturato il requisito per “quota 100” nel triennio di sperimentazione ma hanno deciso di continuare a lavorare sapendo che quel diritto resta valido e può essere esercitato anche dopo il 2021, riducendo in questo modo la perdita di valore della pensione. Il dubbio che anche quella norma venga cambiata giustifica la corsa gli sportelli.

Tavoli di confronto da gennaio
Per ridurre il rischio il governo potrebbe varare nuove (e onerose) misure di flessibilità prima. Ma per avere efficacia le nuove flessibilità dovrebbero essere adottate in largo anticipo, altrimenti l’incertezza vincerebbe. Com’è noto l’intenzione è quella di affrontare la materia già nei primi mesi del prossimo anno. Si vedrà con quali risultati, tenendo conto della sensibilità politica che condizione le scelte in materia (solo per dirne una: ci sono 7-8mila sedicenti esodati in pressing per l’ennesima salvaguardia).

 

 

 

 

 

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