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Il documento riservato sugli accordi tra Italia e Cina

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La Cina chiede all’Italia di essere “parte attiva” nell’iniziativa di connessione infrastrutturale euro-asiatica Belt and Road, lanciata nel 2013 dal presidente cinese, Xi Jinping, e di attenersi alle “decisioni prese in maniera indipendente”. Sulla possibile adesione italiana al maxi-progetto infrastrutturale cinese si è espresso oggi il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, durante la conferenza stampa annuale a margine dei lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il parlamento cinese.

L’interesse per l’iniziativa è sotto i riflettori, dopo le dichiarazioni del sottosegretario allo Sviluppo Economico, Michele Geraci, che al Financial Times, ha dato per imminente la conclusione del negoziato con la Cina sull’adesione italiana alla Belt and Road, in occasione dell’attesa visita del presidente cinese, Xi Jinping, in Italia, nella seconda metà di marzo. Secondo un memorandum d’intesa definito “confidenziale” di cui dichiara di essere entrato in possesso il media network Euractiv, la futura cooperazione tra italia e Cina comprenderebbe i settori di “strade, ferrovie, ponti, aviazione civile, porti, energia e telecomunicazioni”.

Un’intesa che non piace agli Usa

L’appoggio italiano all’iniziativa è stato accolto con scetticismo dagli Stati Uniti: Washington, aveva dichiarato nei giorni scorsi il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale statunitense, Garrett Marquis, ritiene che l’endorsement possa “danneggiare la reputazione globale dell’Italia” e chiede agli alleati di esercitare pressioni su Pechino per il rispetto degli standard internazionali. Una posizione bollata come “davvero assurda”, nei giorni scorsi, dal portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Lu Kang. “Come grande Paese e grande economia, l’Italia sa dov’è il suo interesse e può fare politiche indipendenti”, dice il portavoce.

Il possibile sostegno dell’Italia all’iniziativa di connessione infrastrutturale voluta da Xi Jinping ha fatto discutere anche la stampa cinese. L’agguerrito tabloid Global Times, in un editoriale comparso on line nella serata di ieri e pubblicato oggi, spiega che la decisione dell’Italia avrà ripercussioni, almeno “in parte”, sulla politica statunitense nei confronti della Cina, e prende spunto dall’attesa firma di un memorandum d’intesa sulla Belt and Road tra Roma e Pechino per allargare il discorso agli equilibri tra Unione Europea e Stati Uniti.

“Gli Stati Uniti si vedono come il grande fratello dell’Occidente”, scrive il tabloid. “Sono irritati dall’imminente cooperazione tra il loro alleato di lungo corso, l’Italia, e un Paese che non nascondono neppure l’intenzione di contenere”, ovvero la Cina, “ma questo significa anche che la decisione dell’Italia colpirà la politica verso la Cina degli Stati Uniti, in parte. L’Italia diventerà il primo Paese del G7 a fare parte della Bri”, la sigla per Belt and Road Initiative. Gli Stati Uniti soffrono di un “senso di superiorità”, prosegue il giornale pubblicato dal Quotidiano del Popolo, organo di stampa ufficiale del Partito Comunista Cinese, e “se l’Europa seguirà gli Stati Uniti e starà con gli Stati Uniti per contenere la Cina, darà via la sua posizione di importante pilastro del mondo”.

Xi Jinping arriva in Europa

Il ministro degli Esteri cinese ha confermato oggi la “buona forma” dei rapporti tra Cina e Unione Europea, che sarà tappa di una vista del presidente Xi a fine marzo, ha aggiunto, senza svelare il nome dei Paesi interessati (Francia, oltre all’Italia). “In un mondo di incertezze e contro protezionismo e unilateralismo abbiamo visioni comuni”. La Cina, ha detto Wang, auspica più dialogo con l’Europa. Il rapporto tra Italia e Cina alla luce del rapporto tra Italia e Unione Europea è stato dibattuto nelle scorse ore anche dall’ex presidente della Commissione Europea, ed ex presidente del Consiglio, Romano Prodi.

La Cina non ha alcun interesse indebolire l’Europa, ha spiegato in un’intervista a il Foglio, come invece sembrano interessati a farlo gli Stati Uniti o la Russia di Vladimir Putin. Prodi, però, avverte che “il dato di fondo che anche un nazionalista in buona fede dovrebbe capire è che se il rapporto con la Cina avverrà su un piano esclusivamente nazionale, la partita non c’è: se avverrà su un piano europeo, ciascun Pese dell’Unione può trovare un modo per proteggersi senza dover ricorrere alla retorica protezionista”.

Per Pechino, la Via della Seta, altro nome dell’iniziativa Belt and Road, non è uno “strumento politico” che crea una “trappola del debito”, ma una “torta economica” che va a beneficio delle popolazioni locali: il mese prossimo è previsto il secondo Belt and Road Forum nella capitale cinese, con un numero di capi di Stato e primi ministri più ampio rispetto alla prima edizione, del maggio 2017, a cui partecipò anche l’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, unico leader politico di un Paese del G7. 

I Paesi coinvolti

Secondo le ultime stime cinesi sono 152 i Paesi che hanno scelto di appoggiare l’iniziativa: di questi, 67 hanno optato per il maxi-progetto infrastrutturale nello scorso anno. L’interesse italiano riguarda, in primo luogo, il versante marittimo dell’iniziativa, con i porti del nord Adriatico, e in particolare Trieste, in prima fila. Il sostegno italiano all’iniziativa è proseguito anche con l’esecutivo attuale. Il vice presidente del Consiglio, Luigi Di Maio, ha già effettuato due visite in Cina. In occasione della sua presenza a Shanghai per l’inaugurazione della prima China International Import Expo, Di Maio aveva sottolineato l’importanza dell’iniziativa lanciata da Xi per l’Italia. L’adesione all’iniziativa, disse, è “un’occasione per incrementare ulteriormente i rapporti tra le nostre aziende e quelle cinesi”. 

L’iniziativa si è ampliata con il crescere dell’influenza cinese nell’economia e nella politica internazionali e può contare su alcuni progetti che stanno contribuendo a ridisegnare lo scacchiere globale. Tra questi si possono citare il Corridoio Economico Cina-Pakistan, del valore di 62 miliardi di dollari, che vede uno dei punti principali nello sviluppo del porto pakistano di Gwadar. Rimanendo più vicini all’Italia, si può citare l’acquisizione del porto del Pireo da parte del gigante delle spedizioni marittime cinese, Cosco (China Ocean Shipping Company).

Sul versante energetico, un ruolo di primo piano all’interno dell’iniziativa lo ha la condotta petrolifera che collega Cina e Myanmar giunta al termine dei lavori nel 2017, dopo anni di ritardi e proteste da parte elle popolazioni locali interessate dal passaggio della pipeline. Altri progetti per la connessione ferroviaria tra Cina ed Europa sono stati avviati negli ultimi anni: nel dicembre 2017 è partito da Mortara, vicino a Pavia, il primo treno diretto a Shanghai all’interno dell’iniziativa. Madrid e Londra sono già connesse con la Cina, e uno degli scali ferroviari più importanti per i treni merci in arrivo da Chongqing, la metropoli da trenta milioni di abitanti del sud-ovest cinese, è quello tedesco di Duisburg. 

Una “trappola del debito”?

Il maxi-progetto di Xi da oltre mille miliardi di dollari ha destato anche molti dubbi riguardanti la possibilità che l’iniziativa possa favorire le imprese statali cinesi o creare meccanismi da “trappola del debito” per i Paesi che vi aderiscono. Le critiche maggiori arrivano soprattutto dagli Stati Uniti. Un giudizio particolarmente negativo è arrivato dalla Us-China Economic and Security Review Commission, in un rapporto del novembre scorso. La Belt and Road “incoraggia e dà validità ad attori autoritari all’estero” e ha lo scopo di “rafforzare la sicurezza energetica, espandere la Cina militarmente e avanzare l’influenza geopolitica della Cina portandola al centro dell’ordine globale”.

Ancora più chiaro è stato il vice presidente degli Stati Uniti, Mike Pence, in occasione dello scorso vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) in Papua Nuova Guinea. Gli Stati Uniti “non annegano i loro partner in un mare di debiti”, disse sull’iniziativa di Xi. “Non usiamo coercizione, corruzione o compromettiamo la vostra indipendenza. Non offriamo cinture che stritolano o una via a senso unico”.

I dubbi di Bruxelles

Pur senza citare direttamente la Cina, la questione degli investimenti stranieri in Europa è stata oggetto di attenzione da parte della Commissione Europea a partire dal 2017: il presidente, Jean-Claude Juncker, annunciò nuove misure per lo screening degli investimenti stranieri, adducendo come motivazione  la difesa dell’Ue dei propri interessi strategici: nelle sue parole si legge un riferimento neppure troppo velato all’acquisizione di una quota di controllo nel porto del Pireo da parte del gigante delle spedizioni marittime cinese, Cosco (China Ocean Shipping Company).

“Se una compagnia di Stato straniera vuole comprare un porto europeo, parte della nostra infrastruttura energetica o un’azienda di tecnologia di difesa”, ha detto Juncker, “dovrebbe accadere in trasparenza, scrutinio e dibattito. È una responsabilità politica sapere cosa sta accadendo nel nostro giardino, in modo da proteggere la nostra sicurezza collettiva, se ce ne è bisogno”. Nelle prossime settimane il tema degli investimenti cinesi tornerà di nuovo all’attenzione di Bruxelles.

Battute d’arresto

L’iniziativa è andata incontro a battute d’arresto negli ultimi tempi, a cui la Cina ha cercato di porre riparo, e ha incontrato resistenze anche nei Paesi che per primi vi avevano aderito. Il caso più indicativo è quello dello Sri Lanka, dove sono sorte polemiche relative alla sicurezza nazionale in seguito alla concessione di 99 anni del porto di Hambantota, garantita nel dicembre 2017 alla Cina, che opera nell’area tramite la statale Cccc (China Communication Construction Company). Malumori attorno all’iniziativa sono sorti anche in Nepal, in Myanmar e in Pakistan, punto nevralgico del maxi-progetto.

Il caso forse più eclatante di accusa nei confronti della Cina per la Belt and Road risale all’agosto scorso, quando giunse a Pechino il primo ministro della Malaysia, Mahatir Mohamad. Il 92enne premer malaysiano aveva apertamente parlato di timori sull’iniziativa per “una nuova versione di colonialismo”, e cancellò due progetti multimiliardari legati all’alta velocità ferroviaria. 

Un’inchiesta del Wall Street Journal svelò anche la presenza di contratti gonfiati sotto la precedente amministrazione della Malaysia, su cui l’esecutivo attuale promise di impegnarsi a fare chiarezza. Mahatir, in seguito, cambiò radicalmente posizione sulla Cina. “La nostra politica è di mantenere e migliorare la nostra relazione con la Cina”. Pechino è il più grande partner commerciale e un grande investitore nel Paese, disse il mese scorso, confermando, per primo, la propria partecipazione al Belt and Road Forum del mese prossimo. 

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