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Parte da lontano la lunga marcia del nostro debito pubblico. Parte dalla proclamazione del Regno d’Italia, quando il ministro delle Finanze Piero Bastogi decise di unificare i debiti degli ex stati confluiti nella nuova entità nazionale, attraverso l’istituzione del Gran libro del debito pubblico.
Fu così che con un solo tratto di penna, nel primo decennio unitario il debito pubblico volò al 95% del Pil, anche a causa dell’incremento delle spese militari. Alla fine della prima guerra mondiale, eravamo al 120 per cento.
L’operazione più rilevante fu messa in atto dal regime fascista, che nel novembre del 1926 avviò il consolidamento forzoso del debito a medio termine accanto alla rivalutazione della lira alla cosiddetta “quota novanta”, il nuovo rapporto di cambio con le valute estere equiparate all’oro. Nel secondo dopoguerra l’iperinflazione contribuì quasi ad annullare la spesa per interessi, tanto che il debito calò nel 1946 al 33% del Pil.
L’impennata si verifica tra gli anni 70 e 80 del Novecento. Dal primo shock petrolifero del 1973, la crescita del fabbisogno pubblico non ha conosciuto soste, tranne brevi periodi. Il debito pubblico passa dal 55,4% del 1973 nei dintorni dell’84% a metà degli anni 80. Cresce la spesa pubblica per istruzione, sanità, previdenza e assistenza, non finanziata da un pari aumento della pressione fiscale.
Negli anni 80 il debito esplode. È il decennio del cosiddetto “assalto alla diligenza”, delle leggi finanziarie in cui il ricorso all’indebitamento era la regola. Il debito, che nel 1982 era pari al 66,4% del Pil, dieci anni dopo salirà al 110,8 per cento. Nel 1992, l’anno della crisi valutaria e della svalutazione della Lira, che costò al nostro paese l’uscita dal sistema di cambi europei (il cosiddetto serpente monetario) il rapporto tra debito e Pil era per la precisione pari al 108% contro il 52,4% della Francia, il 45,7% del Regno Unito e il 44,8% della Germania.