Ora, è evidente che un aumento dell’Iva di queste proporzioni sarebbe quanto meno avventato. In primo luogo, un’operazione di questo tipo finirebbe chiaramente per avere pesanti ripercussioni economiche, con una contrazione dei consumi e contraccolpi sull’occupazione e sulla crescita (a maggior ragione in questa fase di prolungata debolezza della congiuntura). Per altri versi, l’aumento secco delle aliquote non pare una buona soluzione in termini di efficienza del sistema, perché, come è risaputo, l’evasione dell’Iva tende ad aumentare al crescere delle aliquote, mentre il nostro Paese ha bisogno di ridurre l’evasione.
Il tema, allora, diventa come trasformare in opportunità un problema che altrimenti è destinato a trascinarsi di anno in anno. Ovvero, capire se lavorando proprio sulle debolezze dell’Iva, non si possa arrivare a un suo riordino con tre obiettivi combinati tra loro:
– assorbire le clausole di salvaguardia;
– eliminare le storture che l’hanno snaturata;
– far convergere riforma Irpef e riordino Iva, anche nell’ottica di uso razionale delle (poche) risorse disponibili.
Su quest’ultimo aspetto, in effetti, non si parte da zero. Come si ricorderà, nell’autunno scorso, fu proprio il ministro Roberto Gualtieri ad avviare il confronto su un possibile intervento sulle aliquote Iva, nella prospettiva di utilizzare parte del maggior gettito ottenuto alla riduzione del cuneo fiscale (poi finanziata con altre risorse). Allora non se ne fece nulla. Ora, pur con prudenza, proprio a Telefisco il ministro Gualtieri ha ribadito che esistono molte buone ragioni per provare almeno a ragionare su un percorso di razionalizzazione-rimodulazione dell’Iva.
2. Groviglio di panieri e di aliquote diverse anche per beni assimilabili
Uno dei problemi più evidenti dell’Iva è legato alla struttura di aliquote e panieri dei beni-servizi, con un caos che crea ingiustizie e assurde complicazioni. L’assetto attuale delle aliquote – ne abbiamo tre più una: 4, 10 e 22% oltre alla new entry del 5%, a metà del 2017 – è il portato di una irrazionale stratificazione di interventi non sempre attenti all’equilibrio e all’efficienza dell’imposta.
La lettura delle tabelle dei beni soggetti alle diverse aliquote talvolta è un viaggio nel mondo dell’indecifrabile. I casi più eclatanti li ha riassunti Fernando Di Nicola, ex super ispettore Secit, in un’intervista sul Sole 24 Ore del 22 gennaio scorso. La cosa che più colpisce è l’applicazione di aliquote diverse per beni assimilabili: le piantine in vaso di basilico, rosmarino o salvia al 5%, quelle di maggiorana, menta e origano al 22 (se però l’origano è in “rametto” si torna al 5%). Il gas al 22% e l’elettricità al 10. Tra le stravaganze, quella di acqua minerale o caffè (e molti altri prodotti): 4% in mensa, 10% al bar e al ristorante, 22% se acquistati in negozio. Senza dire che, a esempio, i prodotti alimentari sono spalmati sulle quattro aliquote, con differenze che non sembrano avere alcuna logica: il latte al 4%, le uova al 10 per cento.
Come se non bastasse, l’Iva si caratterizza anche per la proliferazione di regimi speciali, esclusioni, esenzioni, eccezioni, facendone un’imposta particolarmente complessa e soggetta a rilevanti fenomeni di erosione (il Rapporto programmatico sugli interventi in materia di spese fiscali, allegato al Def, individua 68 agevolazioni direttamente collegate all’Iva. Qualche anno fa, il rapporto Vieri Ceriani sulle tax expenditures contava circa 120 misure agevolative, comprese le aliquote ridotte, con un costo per l’erario di circa 35-40 miliardi di euro).