Ecco la prova: con l’euro siamo tutti più poveri. O forse non è proprio così. Sta sfacendo molto discutere uno studio del Centrum für europäische Politik (Cep) che soppesa vantaggi e svantaggi economici della moneta unica. L’esito è netto: sarebbe stata un disastro, soprattutto per l’Italia. Eppure la ricerca – spinta, come normale che sia, dagli eurocritici – ha una metodologia scivolosa. E contiene un paio di frasi che, in realtà, sottolineano come non sia proprio tutta colpa dell’euro. Ma, almeno un po’, anche nostra.
Chi ha vinto e chi ha perso
Partiamo dai dati. Tra il 1999 e il 2017, l’Italia è il Paese che ci ha rimesso di più: ha prodotto 4,3 miliardi di euro in meno rispetto a un’ipotetico scenario senza euro. Cioè 73.605 euro per ogni cittadino. “In nessun altro Stato tra quelli esaminati – spiega lo studio – la moneta unica ha portato a una così forte perdita di ricchezza”.
Male anche i francesi (che avrebbero perso 55.996 euro a testa) e i portoghesi (40.606 euro). In linea di galleggiamento belgi (sotto di 6370 euro), spagnoli (in rosso di 5031 euro). La Grecia (sì, la Grecia) è praticamente andata in pari: +190 euro. Ma i Paesi cui l’euro è convenuto davvero sono due: Olanda, con un guadagno netto di 21.003 euro, e soprattutto Germania, in attivo di 23.116 euro per ogni tedesco. Ma come ci sono arrivati i ricercatori a questi numeri? Perché, dopo anni di dibattiti tra pro e contro l’euro, messi così i dati sembrano la pistola fumante del disastro. Calma. Andiamo con ordine.
Il metodo dello studio
Lo studio è stato fatto per “celebrare il 20esimo anniversario dell’euro”, battezzato il primo gennaio 2019. “La domanda – spiegano i ricercatori – era: come sarebbe stato il Pil pro-capite in uno specifico Paese se non fosse stato introdotto l’euro?”. Se il prodotto interno lordo di un Paese è noto, più complesso è indicare l’andamento ipotetico di un’Italia ai tempi della lira. Per farlo, lo studio ha creato una sorta di Paese immaginario che potesse essere il più fedele possibile all’originale. Come? Per ogni Stato, ha preso in considerazione nazioni che, negli anni precedenti all’introduzione dell’euro, avevano “trend di crescita pro-capite simili”.
Le ha miscelate (in quantità diverse) grazie a un algoritmo, in modo tale che il risultato “fosse quanto più strettamente aderente possibile al Pil pro capite del Paese in considerazione”. Un po’ come in una ricetta vegana. Serve una torta, ma non si possono usare burro e uova. Si cerca allora il dosaggio giusto di olio di riso e purea di mela per rendere l’impasto un’alternativa convincente. E una volta ottenuta, si segue la sua evoluzione, cioè la crescita che questo Paese ipotetico ha registrato dal ’99 in poi. Ma siamo sicuri che, un volta in forno, le uova reagiscano come le mele?
Le critiche sul “dosaggio”
Visto che l’euro è in vigore da vent’anni, per definire i Paese “simili” che non lo hanno adottato è stato necessario andare parecchio indietro nel tempo. Lo studio ha raccolto dati tra il 1980 e il 1996, fermandosi tre anni prima perché ha assunto che la preparazione all’introduzione della moneta unica abbia condizionato il panorama economico internazionale. Le radici del confronto sono quindi distanti quasi quarant’anni.
Gli “ingredienti” che hanno composto il gemello dell’Italia sono stati Gran Bretagna (con un peso del 63,2%), Australia (31%), con un pizzico di Israele (3,8%) e Giappone (2%). I principali riferimenti sono quindi due Paesi giudicati simili tra il 1980 e il 1996, ma quantomeno distanti dal nostro. Holger Zschaepitz, tra i giornalisti finanziari di punta del quotidiano tedesco Die Welt, ha definito la scelta che riguarda l’Italia “una cazzata”. E i riferimenti della Germania (accostata a Giappone, Bahrain, Gran Bretagna e Svizzera) “ridicoli”. È proprio questo uno dei punti più criticati. L’economista Michele Boldrin ha definito la ricerca “uno scandalo” e per Thomas Manfredi, statistico del Direttorato di Politiche del Lavoro dell’Ocse “fa ridere”.
Alessandro Martinello, professore italiano dell’Università di Lund, in Svezia, ha spiegato su Twitter tutte le sue perplessità e sottolineato come – variando leggermente l’impasto dei Paesi – i risultati sarebbero molto diversi. L’Italia avrebbe continuato a crescere come e più dell’indice di riferimento almeno fino alla crisi del 2008.
“Questo grafico è giusto e l’altro sbagliato? No – precisa Martinello – sono solo sue paragoni diversi, usando controlli diversi. Non credo che le nazioni che ho usato io siano ne più ne meno paragonabili all’Italia di quelle usate nello studio”. Il problema è che piccole variazioni (non solo nella scelta degli Stati ma anche solo nel loro dosaggio) dà riscontri differenti. Insomma: è molto complicato definire l’impatto dell’euro su diversi Stati Ue, soprattutto prendendo come riferimento Paesi che nell’euro non ci sono entrati.
Ma così, per esempio, prendiamo un altro donor pool. Prendiamo un altro gruppo di nazioni con cui construire il nostro SC unit. Boom. grafico altrettanto convincente, storia diversa. L’Italia guadagna dall’entrata in €, e comincia a soffrirne dopo la crisi pic.twitter.com/ALVkOW6MXp
— Alessandro Martinello (@ale_martinello) February 25, 2019
L’Italia nella teca
Tra le altre cose, allo studio viene imputata una eccessiva rigidità. Sembra che i singoli Paesi siano isolati dal resto del mondo, come in una teca. La ricerca, tra le altre cose, “assume che non ci siano state riforme per incrementare il reddito pro-capite” né nei Paesi analizzati né in quelli fuori dal’euro. Una scelta che – secondo il Cep – non pregiudica la bontà dei dati, perché “i risultati sono così robusti che le piccole riforme non mettono in dubbio i loro effetti”. Tradotto: perdita o guadagno sono talmente chiari che l’impatto delle riforme sarebbe comunque contenuto.
E poi perché, si legge ancora sullo studio, “l’esperienza ha dimostrato che è stato spesso l’euro a spingere alcuni Paesi a fare riforme che altrimenti non avrebbero realizzato”. In questi casi, quindi, “non ci sarebbe alcuna distorsione” perché anche le riforme sarebbero una sorta di effetto collaterale della moneta unica. In pratica, lo studio imputa perdita e guadagni soltanto alla moneta unica, senza badare al cambiamento di uno scenario globale che, nell’arco di vent’anni (se non quaranta, visto che si è tornati al 1980 per individuare i Paesi con cui confrontare la zona euro) è stato enorme.
Di certo c’è solo questo: negli ultimi due decenni, l’Italia è cresciuta meno degli altri Stati europei. Ma per dirlo non servono torte vegane.
Perché non si può dire sia tutta colpa dell’euro
Allora, siamo certi sia tutta colpa dell’euro? Strano ma vero, a rispondere è – tra le righe – proprio il Centrum für europäische Politik. Il fatto che l’Italia ci abbia rimesso più di tutti, “è dovuto al fatto che il Pil pro capite italiano ristagna dall’introduzione dell’euro. L’Italia non ha ancora trovato un modo per diventare competitiva all’interno dell’eurozona”.
Come mai? “Nei decenni precedenti, ha regolarmente svalutato la propria moneta a questo scopo”. Con l’euro, questa possibilità (al di là delle ripercussioni che ha generato sull’equilibrio delle casse pubbliche) è venuta meno. A questo punto, spiega lo studio, sono diventate “necessarie riforme strutturali” che l’Italia non ha varato.
Quale impatto avrebbero avuto? Anche qui, difficile dirlo. La ricerca fa però il confronto con la Spagna. Nella valutazione dei pro e dei contro, Madrid ha avuto un saldo positivo fino al 2010. Nel 2014, l’euro è arrivato a costare a ogni spagnolo più di 2400 euro. Da allora però la tendenza si è invertita e nel 2017 il rosso è stato di 1448 euro a testa. Dal 1999 il passivo è di 5031 euro ciascuno. Gli spagnoli non si sarebbero arricchiti ma ci avrebbero comunque rimesso molto meno degli italiani.
“La Spagna dimostra come le riforme strutturali possano invertire la tendenza negativa di perdita crescente di ricchezza”. Questo non vuol dire che, facendo come Madrid, l’Italia sarebbe più ricca. Significa però che non sembra proprio tutta colpa dell’euro. Lo dice la ricerca che sostiene sia tutta colpa dell’euro.
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