I fuochi d’artificio su caso Siri, riforma delle Province, autonomie e immigrazione stanno oscurando da qualche giorno le questioni dei conti pubblici. Ma l’ombra è destinata a sparire presto. Già martedì le previsioni economiche di primavera della Commissione europea rianimeranno il confronto con Bruxelles, in attesa delle «Raccomandazioni paese» del mese prossimo. E più degli scontri quotidiani su questo o quel tema, la sfida cruciale resta quella della manovra.
I termini del problema sono chiari, e li ha ribaditi in più occasioni il ministro dell’Economia Giovanni Tria nelle ultime settimane: per gestire la scalata degli aumenti Iva da 23,1 miliardi (23,5 con le accise) e rimanere nei binari appena tracciati dal Def serve una cura decisa alla spesa. Meno chiara è la soluzione. Dipenderà dalle «scelte politiche» che si vorranno compiere, ha detto Tria. E il peso di queste scelte emerge con evidenza dai numeri.
IL QUADRO DELLA SPESA
Il grafico mette a confronto i dati chiave dei conti italiani con quelli degli altri Paesi dell’Eurozona. È utile partire dalle conclusioni, che sono due. La prima: quest’anno l’Italia, con il finanziamento in deficit per reddito di cittadinanza e quota 100, è andata in decisa controtendenza rispetto agli altri Paesi, aumentando il peso della spesa corrente sul Pil che altrove scende o rimane fermo. La seconda: cambiare rotta non è tra le possibilità della spending review e della “lotta agli sprechi”, eterna bandiera della politica. Perché sulle spese di funzionamento la nostra macchina pubblica è più leggera della media europea, e già quest’anno si è ridotta nonostante i molti problemi del ciclo di spending review. Conseguenza: tagliare la spesa in modo sensibile senza incidere su servizi e prestazioni finanziate dal bilancio pubblico appare oggi praticamente impossibile.
I numeri elaborati sulla base delle banche dati della commissione Ue lo indicano senza troppi tentennamenti. La spesa pubblica corrente in Italia vale quest’anno il 45,5% del Pil, con un aumento pari allo 0,7% del prodotto (una dozzina di miliardi abbondanti in valore assoluto) rispetto al 2018. Nello stesso periodo, sia l’Eurozona sia l’area più ampia dell’Unione europea sono andate, piano, in senso contrario, tagliando la spesa di un decimale di Pil. E allargando quindi la distanza rispetto al nostro Paese: nella media dei Paesi dell’euro le uscite correnti sono passate dal 43% al 42,9% del Pil, nell’Unione europea sono arretrate dal 41,7% al 41,6 per cento.
Ma c’è di più. Gli ultimi aggiornamenti compiuti con il Def, non ancora recepiti dai database del confronto europeo, dicono che il livello della spesa italiana è anche più alto, al 45,7% del Pil; e che tale rimarrebbe anche l’anno prossimo quando i conti del deficit tornano grazie agli aumenti Iva. Una riduzione comincerebbe a vedersi dal 2021, al 45,4% del Pil: a patto però di centrare almeno la crescita tendenziale dello 0,6% nel 2020 e dello 0,7% nel 2021.
Oltre che con la media Ue, la controtendenza italiana è evidente anche rispetto ai grandi Paesi europei. L’unica spesa più consistente è quella francese, alimentata da uno Stato tradizionalmente pesante. Anche lei cambia dello 0,7% del Pil tra 2019 e 2020; ma in discesa, passando dal 51,6% al 50,9%. La Germania cresce di poco e resta lontanissima dai livelli italiani, con una mini-oscillazione dal 40,3 al 40,5% del Pil, e ancora più in basso viaggia la Spagna, intorno al 38% del Pil. Ma nemmeno la Svezia patria della fu ricca socialdemocrazia del welfare state, raggiunge i livelli italiani. Più in alto si colloca la Finlandia; ma anche lì la spesa è in discesa.
Ma c’è un’altra voce importante, che misura le difficoltà di cambiare rotta. La «lotta agli sprechi» e la spending review, nonostante l’inciampo sui commissari prima nominati e poi subito ritirati dal consiglio dei ministri, torneranno presto a dominare le promesse della politica. Ma non è da lì che possono arrivare i risparmi decisivi. I «consumi finali» sono le spese di base per il funzionamento della macchina della Pa, e sono alimentati da stipendi dei dipendenti pubblici, acquisti di beni e servizi sul mercato e consumi intermedi.
A queste spese l’Italia dedica una cifra pari al 18,3% del Pil, in discesa rispetto all’anno scorso (18,6%) e già largamente sotto la media della Ue (19,9%) e dell’Eurozona (20,2%). Se si restringe l’ottica ai soli «consumi intermedi», cioè agli acquisti che la Pa realizza per funzionare, la situazione cambia di poco: il 5,4% del Pil speso dall’Italia secondo la classificazione europea (codifica Esa P.2) è superiore a Germania (4,75%), Francia (4,9%) e Spagna (4,9%), e inferiore a paesi come l’Austria (6%) o la Finlandia (10,6%).
Il tentativo di rendere più efficiente la Pa, insomma, è doveroso, e può racimolare qualche zerovirgola di Pil: ma è complicato, come mostrano le tante resistenze ministeriali che fin qui hanno bloccato il ciclo della spending previsto dalla riforma del bilancio pubblico. E non basta certo a raccogliere le cifre necessarie a far andare d’accordo gli obiettivi del Def, lo stop agli aumenti Iva chiesto da Lega e Cinque Stelle e i progetti di riforma fiscale della maggioranza.