Anche quest’anno gli esperti dell’organismo di Washington guidati da Rishi Goyal hanno scelto di fare una prima capatina nel nostro Paese tra l’11 e il 19 luglio ma hanno rimandato al quarto trimestre dell’anno il momento della missione ufficiale in Italia prevista dall’articolo IV dello statuto
di Rossella Bocciarelli
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Il Fondo monetario lascia invariate le prospettive di crescita per l’Italia nel 2019 a un mediocre +0,1 per cento e ritocca lievemente all’ingiù, rispetto ad aprile, le stime del 2020, portando il Pil stimato a + 0,8 dal precedente 0,9 per cento. Il motivo è spiegato en passant: l’incertezza politica è sempre là, campeggia nello stesso modo in cui riempiva il quadro ad aprile scorso e continua ad intaccare lo sviluppo degli investimenti e la dinamica della domanda interna.
La cifra scelta nell’aggiornamento del World economic outlook, in ogni caso, è quella dell’understatement. Del resto, anche quest’anno gli esperti dell’organismo di Washington guidati da Rishi Goyal hanno scelto di fare una prima capatina nel nostro Paese tra l’11 e il 19 luglio ma hanno rimandato al quarto trimestre dell’anno il momento della missione ufficiale in Italia prevista dall’articolo IV dello statuto.
Il perchè è facilmente intuibile: solo all’inizio dell’autunno saranno chiare le decisioni di politica economica del Governo per il 2020, a cominciare dalla riforma fiscale, con ipotesi che, variamente soppesate e aggiunte ai 27 miliardi necessari per cancellare l’aumento dell’Iva, finanziare le spese indifferibili e gli investimenti, danno sempre la rispettabile somma di 40 miliardi da coprire.
E quindi per ora i superispettori Fmi, nelle conversazioni con i principali centri studi italiani, si sono limitati a lasciar trapelare le loro preoccupazioni sull’Italia: il paese rimane vulnerabile alla volatilità di mercato, per via delle sue esigenze di rifinanziamento sia a livello di debito sovrano che di banche; le sofferenze, è vero, sono diminuite ma i crediti unlikely to pay sono in aumento; tanto più importante, quindi, un consolidamento fiscale che sia a favore della crescita, per mantenere la fiducia degli investitori. Ma le sollecitazioni, almeno per ora, non sono state particolarmente incalzanti.
Fortunatamente, infatti, in tutto il mondo dalle banche centrali è arrivata un’intonazione particolarmente “dovish”(che per la verità, dovrà essere testata di qui a fine mese nelle riunioni di Bce e Fed). Lo stile da colombe ha comunque rasserenato i mercati finanziari. Per noi italiani, in particolare, come sottolinea anche il Centro studi Confindustria, a determinare una sensibile riduzione dello spread sui titoli di Stato hanno contribuito tre fattori: il primo è il discorso di Sintra di Mario Draghi, con la comunicazione della volontà di mantenere i tassi invariati per almeno un anno, dei dettagli sulle operazioni finalizzate a garantire liquidità al sistema e della possibilità di ulteriori stimoli. Il secondo è la decisione della Commissione europea di non avviare, per ora, una procedura per disavanzo eccessivo basata sul criterio del debito-nei confronti dell’Italia. Il terzo è il manifestarsi di alcuni dati macroeconomici migliori delle attese, come quelli sul mercato del lavoro e sulle entrate.