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Licenziamenti: 1,3% in meno con il Jobs act rispetto all’articolo 18

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Secondo i dati raccolti dai consulenti del lavoro, il contratto «a tutele crescenti» non presenta maggiore rischio di licenziamento<br/>rispetto a quello soggetto al regime dell’art. 18

di Claudio Tucci

16 gennaio 2020


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2′ di lettura

Una parte della maggioranza, Leu e M5S, chiedono, in vista della verifica di governo di fine mese, il ritorno all’articolo 18, vale a dire la generalizzazione della reintegra nel posto di lavoro per tutti i dipendenti. Superando quindi il regime delle tutele indennitarie crescenti in vigore per gli assunti stabili post 7 marzo 2015 per effetto del Jobs act.

La motivazione
La motivazione politica di questa richiesta è, per i proponenti, una sostanziale estensione di diritti e un freno alle espulsioni, soprattutto quelle per motivazioni economiche. Ma i dati dicono davvero che in questi 4 anni e rotti c’è stato un boom di licenziamenti?

I numeri

In realtà, numeri alla mano, no. Pietro Ichino, il giurista che ha sempre sostenuto in dottrina, per superare le rigidità del mercato del lavoro, la necessità di monetizzare i costi di separazione, come del resto avviene in gran parte d’Europa, ha evidenziato come con o senza articolo 18 il rischio di licenziamento nel nostro paese sia rimasto invariato, intorno all’1,4 per cento annuo.

Meno licenziamenti con il Jobs act
Non solo. Anche i consulenti del lavoro hanno affrontato il tema, nello studio “I contratti a tempo indeterminato prima e dopo il Jobs act”, elaborato dall’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro utilizzando i microdati CICO (Campione Integrato Comunicazioni Obbligatorie). Ebbene, secondo i dati raccolti, il contratto «a tutele crescenti» non presenta maggiore rischio di licenziamento
rispetto a quello soggetto al regime dell’art. 18, tant’è che, a 39 mesi dall’assunzione, risulta licenziato il 21,3% dei dipendenti assunti nel 2015 con il nuovo regime a fronte del 22,6% dei neoassunti con contratto tradizionale nel 2014.

Il contratto a tutele crescenti, inoltre, “sopravvive” di più rispetto a quello tradizionale: sempre a 39 mesi dall’assunzione, il 39,3% dei contratti stipulati nel 2015 continuano ad essere attivi contro il 33,4% di quelli sottoscritti in regime di articolo 18. Se si guarda, poi, alle motivazioni dei licenziamenti, quelli per motivo economico restano la principale causa di recesso (a 39 mesi dall’assunzione risulta licenziato per tale motivo il 18,5% dei neoassunti con contratto a tutele crescenti contro il
20,6% degli assunti con contratto a tempo indeterminato tradizionale) mentre il licenziamento disciplinare continua a interessare una quota marginale di neoassunti con le tutele crescenti (2,8% contro 2,1%).

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Fonte

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