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Pensioni d’oro, in 14 anni persi 12 mesi di assegni

Un pensionato “d’oro”, ovvero con un assegno superiore ai 100mila euro lordi l’anno (55mila netti), per effetto delle parziali indicizzazioni all’inflazione, tra il 2006 e il 2019 ha perduto in termini cumulati un’intera annualità rispetto a un suo alter ego che avesse goduto di una perequazione piena. Negli stessi 14 anni un pensionato con un assegno pari a 8 volte il minimo (3.420 euro) ha perso l’11%. Una perdita secca che non verrà mai più recuperata.

A pochi giorni dalla manifestazione sindacale contro la stretta sulle pensioni del governo (3,6 miliardi di risparmi nel triennio) a fare i calcoli sull’impatto storico e attuale di queste strette alla perequazione degli assegni Inps al costo della vita è “Itinerari Previdenziali”, in un’analisi di Alberto Brambilla (presidente del Centro Studi e Ricerche), Giovanni Gazzoli e Antonietta Mundo (già coordinatore generale statistico-attuariale Inps). In una seconda analisi Itinerari ritorna poi sul taglio quinquennale, che scatta sempre questo mese, sulle pensioni più elevate; un provvedimento giudicato «incostituzionale» e contro il quale si attendono numerosi ricorsi.

Tornando alla perequazione all’inflazione, con il pagamento di questo mese 5,5 milioni di pensionati, il 34% dei 16 milioni totali, non solo dovranno cominciare a fare i conti con il nuovo ciclo di adeguamento limitato ai prezzi ma dovranno pure restituire – sotto forma di trattenute Inps – i primi tre mesi di mancata applicazione dei nuovi coefficienti. Secondo “Itinerari Previdenziali” i più penalizzati sono 1,5 milioni di pensionati con l’assegno più elevato «proprio quelli – si legge nella nota – che da vent’anni sono perseguitati dallo Stato, alla faccia del merito, e che i contributi e le imposte li hanno pagati, a differenza degli oltre 8 milioni di pensionati totalmente o parzialmente assistiti dallo Stato e dei 2 milioni che, di imposte, nella loro vita ne hanno pagate poche».

Il raffreddamento della perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo ha una storia molto lunga alle spalle. Nella ricostruzione offerta si risale al 1997, quando il governo Prodi azzerò la rivalutazione delle pensioni 5 volte sopra il minimo (1.430 euro nette) un azzeramento che si prolungò fino alla fine di quella legislatura con i governi D’Alema e Amato. In vent’anni questa leva per ridurre il potere d’acquisto delle pensioni con una mano, mentre con l’altra si ritoccavano continuamente i requisiti di pensionamento, è stata utilizzata da sette governi di tutti i colori politici, l’ultimo è il “governo del cambiamento” di Conte. Unica pausa con ritorno all’indicizzazione piena è stata tra il 2001 e il 2006 (governo Berlusconi).

Il punto di svolta più drastico è arrivato nel 2012, quando per effetto della riforma Fornero, varata nel pieno della crisi finanziaria, le minori aliquote di copertura ai prezzi (il coefficiente di elasticità, per usare un tecnicismo della Ragioneria generale) vennero applicati sull’intero importo della pensione e non più sulle fasce. In questa lunga storia è da ricordare anche il congelamento a zero della perequazione che sarebbe passata in negativo tra il 2016 e il 2017, quando l’Italia entrò in deflazione.

Per tornare all’oggi l’analisi di “Itinerari” prova a fare i conti di due pensionati ideali (con assegno appunto da 3.420 euro) che sono andati in quiescenza nel 2006: il primo con la pensione rivalutata all’inflazione al 100%, il secondo invece con il “limitatore” dell’indicizzazione parziale. Dopo 14 anni (dal 2006 al 2019), per colpa di questo “limitatore”, il secondo pensionato avrà perso come detto quasi l’11% di potere d’acquisto della sua rendita mensile, il che significa aver incassato in 13 anni (escludendo quindi l’anno di partenza) ben 39.251 euro in meno (la somma di tutti gli importi “persi”, dagli 8,53 euro al mese del 2007 ai quasi 400 euro al mese di oggi). «E ciò malgrado i contributi li abbia invece sempre pagati a inflazione piena», annotano gli autori. Che concludono così: «Se questo soggetto percepisse la pensione ancora per i prossimi dieci anni, la perdita aumenterebbe ulteriormente: ai valori attuali, altri 50.970 euro, per un totale in 23 anni di 90.221 euro». Non proprio la sommetta che sarebbe indifferente anche all’avaro di Molière, si sottolinea nell’analisi ricordando la citazione usata dal premier qualche mese fa per sminuire l’effetto della nuova stretta. Sul taglio «di solidarietà» alle pensioni «d’oro», Brambilla è netto: «Se fossimo un Paese normale le dichiarazioni del ministro del Lavoro sulle pensioni oltre i 100mila euro dovrebbero essere perseguite come “false comunicazioni”, con l’aggravante dell’istigazione all’odio di classe».

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