Rider come dipendenti. Il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, ci riprova, e annuncia una soluzione normativa per estendere tutele e diritti ai rider.
La proposta di Di Maio
Secondo il vice premier, questi lavoratori, che consegnano pasti a domicilio, organizzati tramite App, con la norma che si dice essere in arrivo, conquisterebbero la copertura Inail per gli infortuni, una migliore contribuzione Inps (per superare, laddove applicata, la gestione separata), e soprattutto scatterebbe per i datori il divieto di retribuzione a cottimo.
I precedenti
Il punto è che non è la prima volta che Di Maio annuncia una normativa sui rider. Il tentativo iniziale fu fatto in sede di stesura del decreto dignità la scorsa estate. Alla fine si soprassedette perché si preferì arrivare a una soluzione negoziata, vale a dire regolare il fenomeno rider attraverso la contrattazione collettiva.
La seconda volta, è accaduta in autunno con il “decretone”. Qui la disposizione legislativa, messa nera su bianco da tecnici e allora consulenti del ministero del Lavoro, andava oltre la semplice estensione di tutele e diritti a questi lavoratori della gig economy, ma nel riscrivere una fetta di Jobs act, praticamente, metteva nel mirino tutte le collaborazioni – non solo quindi rider – che si sviluppano nell’ambito dell’organizzazione di una azienda, e che, in base al testo normativo, se approvato, avrebbero visto applicarsi tout court la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Quello che la norma “autunnale” sui rider infatti operava è la riscrittura del comma 1 dell’articolo 2 di uno dei decreti attuativi della riforma del 2015: in sintesi, ex lege si prevedeva una sorta di assimilazione al lavoro dipendente (pur non specificando le singole tutele applicabili) «anche a quelle collaborazioni che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e la cui organizzazione è predisposta dal committente, anche attraverso il ricorso a piattaforme digitali» (ricomprendevi così i lavoratori che consegnano pasti a domicilio organizzati tramite App). A essere cassato era il riferimento, inserito dal Legislatore del 2015, alle «modalità organizzative del committente in relazione a tempi e luogo di lavoro», una limitazione introdotta per salvare le collaborazioni “genuine”.
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Lo stop della Lega
Quella norma, come detto, doveva entrare nel decretone. Fu soprattutto lo stop da parte della Lega, oltre che l’estraneità per materia rilevata in sede referente, a stralciare la disposizione. Che oggi il ministro del Lavoro, invece, ritira fuori. Di Maio punterebbe a introdurre la norma in sede di conversione del decreto crescita. Ma anche qui, forte è il rischio di estraneità della materia. Non a caso lo stesso vice premier ha messo subito le mani avanti, specificando che, per intervenire in tale senso, occorre ricevere l’ok dai presidenti di Camera e Senato. Più probabile quindi si punterà al ddl sul salario minimo, attualmente all’esame in commissione al Senato. Con tempi pertanto più lunghi.
La posizione della giurisprudenza
Il tema rider, e in particolare le tutele e i diritti da riconoscere a questi lavoratori, è molto delicato, e oggetto negli ultimi anni di studi e proposte da parte dei giuslavoristi. Non solo. Adesso va affrontato anche tenendo conto delle recentissime posizioni della giurisprudenza. La Corte d’Appello di Torino sul caso Foodora, per esempio, ha riconosciuto come queste collaborazioni si configurano come «autonome», seppur meritevoli di protezione (ovviamente non si dice che va estesa tout court tutta la normativa sul lavoro subordinato).
La questione, più generale, e molto tecnica, è chiarire limiti e portata della distinzione, che risale a decenni fa, tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, e se trova spazio nell’ordinamento un “tertium genus”. Certo, la scelta di ridurre tutto a lavoro dipendente rischia di generalizzare, e forzare la mano, non tenendo conto delle specificità dei singoli settori e, soprattutto, dei nuovi lavori.