Le richiesta sindacali
I sindacati dei pensionati e le confederazioni generali hanno fatto più di una manifestazione contro questo provvedimento e chiedono il ripristino di schemi di indicizzazione degli assegni Inps meno penalizzanti. Naturalmente il nodo sta nelle coperture. Nonostante le più basse adesioni a “Quota 100”, che nel 2019 garantiranno minori uscite per 1,4 miliardi, meno di quanto anticipato dal monitoraggio Inps, la spesa per pensioni volerà nel prossimo triennio oltre la soglia psicologica dei 300 miliardi. Lo rivela la Nota di aggiornamento al Def approvata ieri dal Consiglio dei ministri. Tra il 2021 e il 2022, ovvero al termine della sperimentazione in corso che consente pensionamenti anticipati con 62 anni e 38 di contributi minimi, la spesa per pensioni passerà da 295,5 miliardi a 304 miliardi (15,9% del Pil). Quale posizione prenderà sula questione il nuovo esecutivo giallorosso? Si vedrà. Il primo appuntamento è fissato con il tavolo di confronto sulle pensioni di venerdì al ministero del Lavoro.
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La spesa per pensioni e l’inflazione
L’Italia non è l’unico paese occidentale in cui le leve della riduzione o del differimento dell’indicizzazione delle pensioni sono state utilizzate per mitigare la spesa. Basta uno sguardo agli ultimi rapporti dell’OCSE sul tema per scoprire che in almeno altri dieci paesi dell’area, negli ultimi anni, i meccanismi di perequazione sono stati toccati, ridotti o temporaneamente congelati. La ragione è sempre la stessa: tenere bassa la traiettoria di una spesa in costante crescita. Gli interventi sono stati dei più vari, calibrati tenendo conto sia delle esigenze di sostenibilità finanziaria dei sistemi previdenziali sia della dovuta protezione del potere di acquisto di pensioni che, grazie all’allungamento dell’aspettativa di vita, hanno durate sempre più significative.
Cosa succede negli altri Paesi
Vediamo qualche esempio recente. In Francia nel 2014 l’adeguamento delle prestazioni all’indice dei prezzi è stato spostato dal mese di aprile a ottobre per le pensioni che sono sopra i 1200 euro al mese, mentre in Grecia il congelamento delle indicizzazioni è iniziato nel 2011 ed è durato quattro anni. Anche in Giappone nel 2015 è stato chiuso un temporaneo stop delle indicizzazioni, mentre in altri Paesi gli interventi sono stati di più lungo termine, con la scelta (già fatta in Italia nel 1992) di indicizzare le pensioni non più ai salari ma ai prezzi o a coefficienti che contengono un mix di inflazione e salari. È il caso dell’Ungheria (dal 2012) o della Repubblica di Slovenia (dal 2013 al 2017) mentre in Australia è stato previsto il passaggio all’indicizzazione sull’inflazione e non più sugli stipendi a partire dal 2017. In Finlandia nel 2015 l’indicizzazione è stata temperata, passando da un fattore dell’1% a uno dello 0,4%, un “fattore di riduzione” degli adeguamenti è stato introdotto anche in Lussemburgo nel 2013 e in Polonia nel 2012 mentre meccanismi di riduzione degli adeguamenti per le pensioni di vecchiaia e invalidità sono stati varati nella Repubblica Ceca nel 2012 per una durata prevista fino alla fine del 2015. In Spagna, infine, l’indicizzazione è stata calibrata anche sulla base dei contributi versati ed ogni cinque anni, a partire da quest’anno, gli assegni saranno adeguati anche sulla base dell’aspettativa di vita.