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Sono 33 le società quotate in Borsa, sul mercato telematico italiano, che dal 2018 collegano le remunerazioni variabili di breve/lungo periodo degli amministratori delegati ai parametri di sostenibilità ambientale, sociale e di governance, i cosiddetti obiettivi Esg. Il dato è fotografato nel Rapporto annuale sulla corporate governance delle società, relativo al 2018, presentato dalla Consob. Per la prima volta l’indagine rileva la propensione delle aziende italiane a correlare gli stipendi a obiettivi reali per la transizione verso un’economia veramente green e sostenibile.
Sorpresa: circa la le metà sono aziende pubbliche
Tra le sorprese c’è il fatto che di queste aziende una quota consistente è rappresentata da società controllate dallo Stato o da autorità locali: 14 in tutto. Il collegamento della remunerazione variabile al raggiungimento di obiettivi Esg viene considerata oggi una delle leve più importanti per impegnare le aziende in una vera transizione, senza limitarsi a un semplice “greenwashing”, a darsi cioè una pennellata di verde per apparire più sostenibile. Più gli stipendi sono collegati a obiettivi di lungo periodo (i bonus variabili vengono dunque pagati solo dopo un certo numero di anni), più un’azienda può ritenersi sostenibile nel tempo. Tra le 14 aziende pubbliche virtuose vanno annoverate – anche se questo il rapporto non lo dice – sicuramente le società che operano nel settore energetico, a partire da Enel, ma anche Eni, Terna, Snam e così via. Le società che prevedono compensi legati a fattori Esg appartengono prevalentemente all’indice Ftse Mib (22 emittenti, pari al 65% dell’indice), seguite dalle imprese Mid Cap (nove casi) e del segmento Star (due casi). Dieci di queste imprese appartengono al settore finanziario (di cui rappresentano il 20,4%), 15 al settore industriale (di cui rappresentano il 12%) e otto al settore dei servizi (sul quale pesano per il 14,5%).
Dalla sicurezza sul lavoro alla riduzione di CO2
Il collegamento si riferisce alle remunerazioni di breve termine in 32 casi e alla componente di lungo termine in nove casi. Nelle 32 società che correlano la remunerazione variabile di breve termine degli amministratori delegati a fattori ESG, la componente retributiva dipendente dalla sostenibilità si attesta mediamente al 14 per cento gli obiettivi appaiono più netti e definiti. I parametri presi in considerazione riguardano rispettivamente tematiche a sfondo sociale in 11 casi, sia sociale sia ambientale in otto casi ed esclusivamente ambientale in due casi. I fattori sociali sono in prevalenza relativi alla sicurezza sul lavoro (nove casi) e al capitale umano (sei casi), mentre quelli ambientali sono generici (quattro casi) o collegati alle emissioni di CO2 (tre casi). Due società vincolano la remunerazione variabile all’inclusione dell’emittente in un indice di sostenibilità specifico oppure all’acquisizione di un rating di sostenibilità. Quando si passa alle società – 9 in tutto – che prevedono per gli ad remunerazioni di lungo termine collegate alla sostenibilità solo in cinque casi è possibile riferire tali compensi a specifiche tematiche riconducibili a fattori ambientali (due casi), sociali (due casi), ovvero a entrambi (un caso). Due aziende, infine, associano il livello di remunerazione al posizionamento dell’emittente rispetto a uno specifico indice di sostenibilità.
In 28 società “green” anche le remunerazione dei dirigenti
Sono 28 le società che collegano anche le remunerazioni di breve periodo dei dirigenti ai parametri Esg; sono 7 quelle che legano anche le remunerazioni di lungo periodo.
«Il Rapporto presenta per la prima volta alcune rilevazioni sulle società che collegano politiche di remunerazione degli amministratori e strategie per la sostenibilità ambientale perseguite dalla società (ne sono state censite 33) – ha spiegato il commissario Consob Anna Genovese -. La rilevazione è di specifico interesse per tracciare le novità in materia, a seguito delle modifiche del Testo unico sulla finanza operate con il D.lgs. n. 49 del 2019 di recepimento della direttiva Ue sui diritti degli azionisti e le politiche di remunerazione degli amministratori orientate a considerare i risultati di lungo termine e la sostenibilità ambientale del business. I dati sono indicativi della intensità di risposta e di alcune le soluzioni organizzative di corporate governance che le società quotate italiane hanno messo in campo per affrontare rischi e cogliere opportunità legate alla transizione verde».
Al palo invece le dichiarazioni non finanziarie
Le dichiarazioni non finanziarie – quelle che illustrano in che modo l’azienda è impegnata nella sostenibilità – nel 2019, però, non sono in crescita rispetto al 2018 (208 rispetto alle 210 dell’anno precedente). «Si registra un incremento, percentualmente significativo, seppure nell’ordine di unità, di dichiarazione volontarie (si è passati da 3 a 5)- ha fatto notare Genovese -. Resta fermo che il numero di società che hanno pubblicato la dichiarazione non finanziaria nel 2019 è basso in assoluto. Si tratta di meno dell’1% del totale delle imprese italiane. Fra le società quotate, invece, la percentuale di diffusione è del 65% circa. Un terzo delle società quotate italiane quindi non produce questo documento. Il fatto fa riflettere. Anche perché, al di là dei numeri, la rilevanza finanziaria e societaria di questa dichiarazione, già in atto è elevata e in prospettiva lo sarà ancora di più».