I beneficiari di prestazioni totalmente o parzialmente assistite sono arrivati a 7.889.693, vale a dire il 49,3% dei pensionati totali
di Davide Colombo
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Un pensionato su quattro prende due pensioni, quasi il 7% arriva a tre assegni e non mancano i casi (1,4%) di signori o signore che fanno poker di assegni Inps. Stiamo parlando di pensioni assistenziali del 2018, le ultime passate in rassegna da Itinerari Previdenziali, il think tank sul welfare fondato da Alberto Brambilla che stamane presenta in Parlamento il suo settimo Rapporto sulla spesa pensionistica. L’appuntamento arriva nel pieno del confronto tra sindacati e governo sull’ennesimo tentativo di “riforma” del settore, visto che alla fine della sperimentazione di Quota 100, l’anno prossimo, c’è da evitare uno scalone di cinque anni tra l’ultimo fortunato che ha colto l’uscita agevolata a 62 anni e il primo escluso che deve tornare a fare i conti con i 67 anni previsti per la vecchiaia.
La spesa per assistenza cresce del 4,3%
Scorrendo le statistiche descrittive del Rapporto, il policy making rimane tuttavia in secondo piano. Il focus principale resta sulla spesa assistenziale e sulla sua deriva rispetto a quella previdenziale. Benché in leggera crescita, quest’ultima sembrerebbe sotto controllo, secondo gli autori delle analisi: nel 2018 ha raggiunto i 225,593 miliardi (contro i 220,843 del 2017), mentre sempre più insostenibile appare il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale: 105,666 miliardi di euro nel 2018, con un tasso di crescita annuo dal 2008 pari al 4,3%. I dati sono ovviamente al netto delle misure entrate in campo l’anno scorso, ovvero Reddito di cittadinanza, pensione di cittadinanza e Quota 100, che nel frattempo hanno ulteriormente appesantito il fardello.
Welfare oltre il 54% della spesa corrente
Secondo Itinerari Previdenziali la spesa per prestazioni sociali (pensioni, assistenza e sanità) in Italia incide per il 54,14% sull’intera spesa pubblica comprensiva degli interessi sul debito: l’incidenza rispetto al Pil, considerando anche altre funzioni sociali e le spese di funzionamento degli enti che gestiscono il welfare, sfiora il 30%, uno dei valori più alti nell’Europa a 27 Paesi Per finanziare nostro welfare sono occorsi 462,114 miliardi, vale a dire tutti i contributi sociali e di scopo (quando previsti), l’intero gettito Irpef, Ires, tutta l’Irap e quasi tutta l’Isos, l’imposta sostituita sui redditi da capitale.
Assistito un pensionato su due
Nel 2018, l’insieme delle sole prestazioni assistenziali (prestazioni per invalidi civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e pensioni di guerra) totalmente a carico della fiscalità generale ha riguardato 4.121.039 soggetti, 38.163 in più rispetto al 2017, per un costo complessivo di 22,350 miliardi, importo in costante aumento nel corso degli ultimi 8 anni. E benché le altre prestazioni assistenziali (integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali e importo aggiuntivo) si riducano, con la sola eccezione della quattordicesima mensilità, i beneficiari di prestazioni totalmente o parzialmente assistite sono arrivati a 7.889.693, vale a dire il 49,3% dei pensionati totali.
Monitorare prima di curare
Prima ancora di avanzare proposte di riordino delle tante misure che compongono questa spesa, Brambilla rilancia anche quest’anno la sua opzione, diciamo così, propedeutica: l’attivazione di un Casellario dell’assistenza presso l’Inps per meglio monitorare i flussi di questa spesa, le platee dei beneficiari vecchi e nuovi e, nello stesso tempo, mettere in campo una più forte azione di contrasto dell’evasione contributiva.Un monitoraggio della spesa per prestazioni assistenziale aiuterebbe, tra l’altro, a sfatare alcuni miti. Se è vero, per esempio, che le singole prestazioni sotto i mille euro sono circa 14,9 milioni, pari al 65,4% di tutte quelle in pagamento, è anche vero che i pensionati che le ricevono sono circa 6,4 milioni ossia il 40% del totale, in tutto o in parte assistiti dalla fiscalità. Mentre guardando al gap di trattamenti pensionistici per genere, se sulle pensioni previdenziali si colloca attorno ai 7.757 euro annui, considerando anche le prestazioni assistenziali e indennitarie il differenziale si riduce a 5.976 euro annui.
La nuova flessibilità parte da 64 anni
Lette le statistiche del Rapporto, naturalmente Brambilla non si sottrae a una riflessione su Quota 100, lui che da consigliere economica della Presidenza del Consiglio ai tempi del Conte 1 prese le distanze dalla sperimentazione in pieno corso. Detto che Quota 100 è stata una risposta “incompleta e costosa a un problema reale” Brambilla individua ora tre criticità su cui intervenire con altrettanti strumenti di semplificazione del sistema: 1) la totale equiparazione delle regole e delle tutele (integrazione al minimo) per i giovani contributivi che hanno iniziato a lavorare dall’1/1/1996 e l’istituzione di un “fondo pensione” per i contributivi, alimentato da subito con 500 milioni l’anno proprio per finanziare le tutele che oggi i cosiddetti contributivi puri non hanno a disposizione, a partire dal 2036; 2) il blocco dell’adeguamento alla speranza di vita del requisito di anzianità contributiva richiesto per la pensione anticipata, con ulteriori sconti per precoci e lavoratrici madri; 3) l’utilizzo dei fondi esubero per lavoratori con problemi e la reintroduzione delle forme di flessibilità già previste dalla riforma Dini/Treu, consentendo quindi il pensionamento con 64 anni di età e 37/38 di contributi. “Un buon compromesso – secondo Brambilla – tra l’esigenza di flessibilizzare il nostro sistema pensionistico e di garantirne al contempo la sostenibilità di lungo termine”. La proposta naturalmente costa, aggiungiamo noi, così come costa rimodulare Iva o Irpef. Ma questo è un problema del Conte 2, per la soluzione l’appuntamento è rinviato alla prossima legge di Bilancio.
Per approfondire
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