Anche un rivoluzionario trotzkista può essere un terribile conservatore, inamovibile su una linea politica definita in un’altra era, 70 anni fa, quando il partito, il Labour, era guidato da Clement Attlee, allora al governo.
Grazie a questa tetragona fede nel socialismo nazionalista di Albione i laburisti britannici di Jeremy Corbyn probabilmente regaleranno il prossimo 23 maggio – mentre una Gran Bretagna attonita e che già si vedeva fuori dalla Ue voterà per il parlamento europeo – una smagliante vittoria al nuovissimo Brexit Party di Nigel Farage. Prenderà forse un terzo dei voti. Assai meno del 52% del voto leave del giugno 2016, ma quanto basta e avanza grazie alle ambiguità laburiste per poter proclamare che per la seconda volta dopo il referendum del 2016 la Brexit ha vinto.
È una storia che viene da molto lontano e conferma la Gran Bretagna, anche a sinistra, come patria della conservazione oltre i limiti dell’autolesionismo e dove la prima cosa da conservare è il nazionalismo inglese, anche a sinistra. Io sono più nazionalista di voi, è quanto Jeremy Corbyn sta dicendo ai conservatori, il partito della Brexit, perdendo l’occasione d’oro di rovesciare l’attuale maggioranza facendo del Labour la casa di chi vuole rimanere parte integrante del continente. Dei 248 parlamentari laburisti, esclusi i sette usciti recentemente in polemica con Corbyn sulla Brexit, solo una trentina sono considerati a favore dell’abbandono della Ue, eletti in genere in collegi anti-Bruxelles delle Midlands. Degli altri circa 210 più dei tre quarti non voterebbero mai, secondo Keir Starmer, uno dei capi dell’ala pro europea del Labour, per un piano di uscita dalla Ue che non contenga la clausola di un secondo referendum, tenacemente osteggiato invece da tutti i pro Brexit. Ma il gruppo dirigente del partito sostiene, sia pure di misura, la linea Corbyn contraria all’uscita dall’Europa dei conservatori ma a favore della “loro” Brexit. Una differenza fra le due c’è, ma alla fine sono entrambe per l’abbandono del progetto europeo.
I LABOUR HANNO LASCIATO CAMPO LIBERO AL BREXIT PARTY
Gli ultimi sondaggi di YouGov danno questo possibile esito del voto imminente: il Brexit Party, cioè la nuovissima formazione di Nigel Farage esule da Ukip, sarebbe al 34%, i laburisti al 16%, i liberal-democratici, partito del tutto pro-Ue, al 15%, i verdi, anch’essi pro Ue, all’11%, conservatori spappolati al 10% (il grosso dei voti di Farage proviene dal loro elettorato), Change Uk, la formazione dei transfughi pro-Ue da Labour e Conservatori, al 5%, Ukip ridotto al 3% e altri, a grande maggioranza filo-europei come lo Snp scozzese, al 7%. Alla fine, attribuendo al fronte pro-Bruxelles con un calcolo a spanne due terzi almeno del voto laburista e metà di quello conservatore, i due campi si equivarrebbero, ma l’assenza di un forte partito filo-europeo che solo i laburisti potrebbero offrire consentirà a Farage dall’alto del suo risultato di dichiarare vittoria in questo voto. Risulterà una sorta di secondo referendum virtuale, perché nessun’altra lista sarà neppure lontanamente vicina ai suoi risultati, peraltro nettamente inferiori a quelli del referendum del 2016. Le profonde ambiguità consentiranno a Farage di contare tutti i voti del Labour nella colonna pro Brexit.
Corbyn, aprendo la breve campagna elettorale per l’europarlamento, è stato chiarissimo: «Non cerchiamo di conquistare i voti solo dei leaver o dei remainer. Invece ci rivolgiamo a tutti. Il Labour non sarà mai il partito del 52% o il partito del 48%». Il problema è piuttosto il rapporto tra i «molti» e i «pochi», tra chi ha e chi non ha, ha aggiunto parlando il 9 maggio a Chatham, nel Kent. Tutto vero. Ma è come agitare la questione della sanità o del debito pubblico o dell’export o magari quella filosofica dei ricchi e dei poveri a chi deve decidere e subito se costruire o no un nuovo aeroporto.
Il buon Corbyn è fuori tema, per eccesso di calcolo e astuzia. Inglese fino al midollo per come pensa, come mangia, come beve e come si veste, straconvinto quindi della diversità (e superiorità) biologica e culturale tra la ‘razza’ inglese e quella continentale che da sempre anima il nazionalismo britannico, il giovane Corbyn votava contro la Ue al primo referendum, voluto da Harold Wilson nel 1975, votava remain nel 2016 nel referendum voluto dai conservatori «perché l’Europa è il quadro utile allo sviluppo britannico», ma non ha mai schierato il partito a favore della Ue e ha detto che in un ipotetico secondo referendum, che non vuole a differenza di gran parte del suo partito come scritto nei documenti programmatici ancora 8 mesi fa, voterebbe forse per l’uscita. Corbyn, e su questo ha trattato per quasi un mese con Theresa May nella speranza di un voto ai Comuni a giugno per chiudere la partita, vuole due cose che i duri e puri conservatori pro Brexit non potranno mai accettare: comunque un’unione doganale con Bruxelles, e la garanzia che le norme europee a tutela dei lavoratori non verranno mai peggiorate dalla legge britannica. Per il resto l’uscita, che sarebbe però come si vede solo una mezza uscita, gli sta bene. Nei giorni scorsi il partito ha mandato su Sky uno dei suoi massimi dirigenti, Barry Gardiner, per dire che la scelta laburista è per il leave, ma in una «alternative way». Alternative, ma sempre leave.
Il partito laburista tornato al governo nel 1946 fu molto attivo per circa 2 anni sul fronte europeo, promuovendo vari accordi intergovernativi. E si chiuse a riccio quando la parola “union”, intergovernativa, incominciò a trasformarsi su iniziativa dei continentali in “unity”, con cessioni di sovranità. Il no alla Ceca, nel 1950, primo nucleo della futura Cee, fu netto. E la linea fu marcata dalla inopinata pubblicazione nel giugno 1950, proprio nel giorno in cui Attlee parlava ai Comuni sul rifiuto britannico di adesione, di un manifesto intitolato European Unity preparato da un gruppo con a capo Hugh Dalton, ex cancelliere dello scacchiere, e Denis Healey, capo dell’Ufficio esteri del Labour. «Rifiutiamo qualsiasi forma di autorità sovrannazionale», diceva il manifesto. E in base a due principi: non indebolire il Commonwealth (che, si può aggiungere, già stava andando a ramengo per conto suo), e rifiutare qualsiasi autorità sovrannazionale che potrebbe interferire con l’esperimento socialista britannico. E poi la frase rivelatrice: «Siamo più vicini all’Australia e alla Nuova Zelanda che all’Europa per lingua, origini, costumi, istituzioni, concezioni politiche e interessi». Nessuna menzione degli Stati Uniti, il “cugino” che contava davvero, perché gli americani si erano ribellati contro Londra nel 1776 e soprattutto perché Washington nel 1950 cercava di opporsi con tutti i mezzi, a differenza degli Usa di Donald Trump, a questi rigurgiti anti-europei britannici, già allora molto miopi.
Nel 1952, alla conferenza annuale del partito, Dalton era ancora più esplicito e diceva che una autorità europea «potrebbe benissimo finire dominata da elementi reazionari». Non ci fu mai vero interesse laburista per l’Europa e furono i conservatori con Harold McMillan e Teddy Heath a condurre per 15 anni la lunga marcia verso Bruxelles, avviata ufficialmente nel 1961 e conclusa nel 1973. Solo con il referendum del 1975 stravinto dai pro-Cee e voluto dal laburista Harold Wilson si chiuse la partita. Nel l’ottobre ’62 il leader laburista Hugh Gaitskell, che pure era stato fra i più attenti nel decennio precedente a ricucire i rapporti con la neonata Cee, aveva tenuto il suo famoso discorso dei «mille anni» dove disse che mai e poi mai il Labour avrebbe rinunciato per il Regno Unito ai mille anni di libertà cedendo poteri allo “straniero”. Il Labour era allora all’opposizione, i Tory volevano la Cee, e lisciare il pelo al nazionalismo pagava, forse. Corbyn sta facendo lo stesso oggi, per non sembrare meno patriottico dei patriottici conservatori pro Brexit. Vuole «un po’» di Ue come mercato soprattutto, ma anche come garanzia di difesa dei diritti dei lavoratori. Ma non vuole rimanere a pieno titolo nell’Unione perché, come lo stizzoso (peevish, era noto per questo) Dalton 72 anni fa, teme che i «reactionary elements» continentali impediscano il glorioso esperimento di socialismo in un solo Paese che ha in mente, fuori tempo massimo, rinazionalizzando settori importanti dell’economia, cosa che gli stessi inglesi a maggioranza gli impediranno di fare. Tutto o quasi come 70 e passa anni fa. Buen viaje a todos, come diceva Don Chisciotte.