Il cosiddetto “dilemma di Kissinger” (a chi devo telefonare per parlare con l’Europa?), erroneamente attribuito a partire dagli Anni 70 al mitologico diplomatico americano, continua a non avere risposta in vista delle elezioni europee 2019. In teoria, il numero di cellulare sarebbe quello dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Federica Mogherini. Ma in pratica, e nonostante i tentativi di Bruxelles di impostare una politica estera comunitaria credibile ed efficace, chi chiama in Ue per avere risposte concrete è ancora costretto a telefonare alle capitali nazionali (a cominciare da Berlino e Parigi).
Insieme alla Difesa, il campo della diplomazia è quello in cui si manifesta con più evidenza la mancanza di una politica comune europea, dovuta al rifiuto dei Paesi membri a rinunciare a pezzi sempre maggiori della propria sovranità. La costante ascesa di partiti nazionalisti, sovranisti e populisti in Europa non faciliterà certo un cambio di rotta da questo punto di vista. D’altra parte, la necessità di un approccio unico per fronteggiare con maggior potere di contrattazione superpotenze come Usa e Cina è sempre più evidente.
IL FRENO DI BREXIT E TRUMP
«Negli ultimi anni c’erano stati buoni passi avanti, in particolare grazie al documento presentato da Mogherini nel 2016, la Eu Global Strategy, che ha avuto almeno avuto il merito di ridefinire l’orizzonte strategico della politica estera europea», spiega a Lettera43.it la professoressa Nicoletta Pirozzi, responsabile del programma “Ue, politica e istituzioni” dell’Iai (Istituto Affari Internazionali), «il problema è che il progetto è arrivato in un momento complicato per l’Ue, essendo stato presentato lo stesso giorno del referendum sulla Brexit e nello stesso anno dell’elezione di Donald Trump, un presidente che ha avuto un approccio molto duro con i vecchi alleati. Per non parlare delle crisi interne dei singoli Stati, in cui si è creato un clima decisamente meno favorevole a un processo di integrazione, con ovvie conseguenze sulla diplomazia».
COSA È STATO FATTO NELLA SCORSA LEGISLATURA
A partire dall’insediamento di Trump, Washington ha assunto una postura decisamente più concorrenziale con Bruxelles: a saltare subito dopo l’arrivo del tycoon è stato il Ttip, il trattato commerciale transatlantico. I continui attacchi del presidente agli alleati, accusati di essere scrocconi, e l’imposizione o la minaccia di dazi su prodotti europei hanno portato i rapporti ai minimi storici.
Paradossalmente proprio il nuovo atteggiamento della Casa Bianca verso il Vecchio continente ha spinto l’Ue alla ricerca di una risposta unitaria. A cercare di risolvere la crisi dei dazi nell’estate 2018 è stato il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, tra l’altro con buoni risultati, e non Angela Merkel o Emmanuel Macron.
L’AMERICA FIRST E IL GELO CON TRUMP
L’America First di Trump ha portato il gelo. Per non parlare delle speranze di questa amministrazione americana di vedere la disgregazione dell’Ue. Ma a tenere unite le due sponde dell’atlantico attraverso le rispettive istituzioni ci sono forze più potenti di quella di un singolo presidente, come le minacce incombenti di Russia e Cina. «L’alleanza transatlantica è destinata a rimanere il perno centrale della politica estera europea», spiega Pirozzi, «credo che l’orizzonte orientale per Bruxelles non servirà per compensare la fragilizzazione del rapporto con gli Stati Uniti. Anzi, credo che la politica estera ed economica aggressiva della Cina potrà diventare un fattore di riavvicinamento tra Europa e Usa, un po’ come lo è la da sempre la minaccia russa ai confini del Vecchio continente».
LA CINA, DA RISORSA A MINACCIA
Fino ai primi anni di questo decennio, l’Europa ha visto la Cina come una potenziale fonte di guadagni e investimenti, un grande mercato pronto a essere sfruttato. Ma la situazione si sta ribaltando, e a Bruxelles sembra lo abbiano capito. Ora è Pechino che vede il Vecchio continente come un “territorio di caccia”, dove mettere teste di ponte per la Nuova via della seta e dove espandere la propria influenza commerciale e diplomatica. «Quello che ci possiamo aspettare», sostiene l’analista dell’Iai, «è che la Commissione e le istituzioni europee cerchino un po’ di regolare le relazioni con la Cina. Anche se molto dipenderà da quanto i singoli Stati membri penseranno ai propri interessi nazionali».
IL SUCCESSO (VANIFICATO) SUL DOSSIER IRANIANO
L’accordo raggiunto nel 2015 sul programma nucleare iraniano è stato il principale successo della politica estera europea della scorsa legislatura e il ruolo svolto dall’Ue nel guidare i negoziati di pace per conto della comunità internazionale è stato fondamentale. Al momento della firma del trattato (il Jcpoa, Joint Comprehensive Plan of Action) è stato l’Alto rappresentante Mogherini a siglare insieme al ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif.
«Il fatto che nel 2017 Trump abbia ritirato gli Usa dall’accordo, decretandone la fine, non toglie nulla alla bontà del percorso politico fatto da Bruxelles per arrivare alla sua definizione. Un percorso che dimostra come l’Unione europea possa contare nel mondo quando si muove dietro un unico volto», spiega Pirozzi.
L’ASSENZA TOTALE SULLA LIBIA
Se l’Iran è stato l’esempio più virtuoso, la Libia è stato quello più negativo per la breve storia della politica estera europea. La guerra è scoppiata nel 2011 dietro la spinta di due Stati membri e l’Ue non ha mai avuto voce in capitolo per cercare di risolvere la crisi. Un vuoto che si è mostrato in tutta la sua evidenza con lo scoppiare dell’ultimo conflitto tra il governo internazionalmente riconosciuto di Fayez al Sarraj e il generale Khalifa Haftar. Gli interessi particolari dei membri Ue (in questo caso Italia e Francia) hanno paralizzato anche la più semplice dichiarazione comune da parte dell’Alto rappresentante.
LE BATTAGLIE GIUSTE AL MOMENTO SBAGLIATO
Nell’ambito della risposta internazionale alla crisi siriana l’Ue è stato il principale donatore, con oltre 9,4 miliardi di euro a sostegno del popolo siriano. «La ricostruzione è stato l’unico ambito in cui l’Ue ha avuto una voce in Siria, e anche da questo punto di vista la partita è tutta da giocare», spiega Pirozzi. La sostanziale vittoria dello schieramento di Bashar al Assad, Iran e Russia rischia di tagliare fuori Bruxelles anche da questa partita.
L’Ue continua a sostenere gli sforzi internazionali volti a instaurare la pace in Medio Oriente favorendo la soluzione a due Stati che prevede uno Stato palestinese oltre a Israele. In questo caso, l’Europa si deve scontrare con il ribaltamento del tavolo voluto da Trump: dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, Washington si prepara a diffondere il suo nuovo “piano di pace” per il Medio Oriente, in cui la soluzione dei due Stati è stata abbandonata. L’Ue si troverà così a difendere una posizione che era già quasi insostenibile con l’aiuto della Casa Bianca. Figurarsi senza.
COSA VERRÀ FATTO NELLA PROSSIMA LEGISLATURA
«Difficile vedere il prossimo voto come un’occasione di rilancio per l’integrazione europea», è la teoria della ricercatrice, «le forze nazionaliste e sovraniste si rafforzeranno – anche se probabilmente non riusciranno a coalizzarsi – e la loro ascesa avrà sicuramente un impatto sulle prossime politiche. Sulla base del voto capiremo anche cosa ne sarà della politica estera europea». Il problema è sempre lo stesso: avere le capacità e i numeri per essere un attore credibile a livello internazionale, ma non riuscire a trovare la volontà politica per portare avanti progetti più ambiziosi. «Fino a qualche anno fa avevamo un gruppo di testa che era abbastanza coeso, cioè Francia, Germania, Italia e Spagna. Ora Macron è sempre più esposto all’opposizione interna. Merkel tra poco lascerà e ci sarà un aggiustamento anche all’interno del partito. In Italia il nuovo governo M5s-Lega non è tra i più europeisti della storia e sta cercando nuove alleanze all’interno dell’Ue. E la Spagna sta vivendo una crisi politica fortissima», spiega Pirozzi. «al momento per rilanciare il progetto europeista, e di conseguenza una politica estera europea, sono rimasti solo Francia e Germania».
IL MOTORE FRANCO-TEDESCO “INQUINA” L’UE?
«Merkel e Macron stanno cercando di rilanciare un’idea di Europa più progressista», continua la ricercatrice. La recente firma del Trattato di Aquisgrana o il vertice Macron-Merkel con Xi Jinping dimostrano il tentativo di riaccendere l’originario motore europeo, ma il rischio è che gli altri Paesi membri interpretino questo revival dell’asse franco-tedesco non come un modo per far ripartire l’Ue, ma come un modo per mantenere la leadership.
«Potenzialmente è un rischio, il fatto è che da sempre il motore franco-tedesco da una parte ha spinto in avanti l’Europa, dall’altra ha marginalizzato gli altri Stati membri. Parigi e Berlino stanno cercando di resettare l’Europa ripartendo dalla loro alleanza».
IL VOTO ALL’UNANIMITÀ NEL MIRINO
Alla fine del 2018 il presidente Juncker ha proposto che gli Stati membri si avvalgano delle vigenti regole dell’Ue per passare dal voto all’unanimità al voto a maggioranza qualificata in determinati settori della Politica estera e Sicurezza comune dell’Ue (la Pesc). Ciò consentirebbe all’Ue di assumere un ruolo più incisivo a livello mondiale e di essere meglio in grado di assumersi responsabilità internazionali. «La ricerca spasmodica dell’unanimità in Consiglio europeo ha portato continuamente allo stallo sulle posizioni da prendere in tema di politica estera e non solo», sostiene Pirozzi. Tre i settori in cui Bruxelles potrebbe muoversi più rapidamente: rispondere collettivamente agli attacchi ai diritti umani, applicare sanzioni efficaci e avviare e gestire le missioni civili di sicurezza e di Difesa. «Ci sono anche dei rischi nell’abbandonare l’unanimità, come quello della frammentazione dei Paesi che restano in minoranza, ma l’inerzia in politica estera dell’Ue degli ultimi anni ha reso evidente che non si può essere sempre tutti d’accordo».
IL FONDO DI SVILUPPO ESTERO ALL’ORIZZONTE
Lo Strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale (Ndici) con i suoi 89,2 miliardi di euro, già approvato dal parlamento europeo, potrebbe rivitalizzare la politica estera europea insieme alle nuove regole sul voto a maggioranza. Questo nuovo strumento, si legge sul sito della Commissione, «sarà costituito da tre pilastri: uno geografico, concentrato soprattutto sulla regione del vicinato e sull’Africa subsahariana, che sarà notevolmente rafforzato per affrontare sfide come lo sviluppo umano, la parità di genere, i cambiamenti climatici, la protezione dell’ambiente, la migrazione e la sicurezza alimentare; uno tematico che andrà a integrare il pilastro geografico attraverso il sostegno ai diritti umani e alla democrazia, alla società civile, alla stabilità e alla pace; uno di reazione rapida che consentirebbe all’Ue di reagire rapidamente alle crisi, sostenere la prevenzione dei conflitti, rafforzare la resilienza degli Stati e l’intervento rapido per raggiungere altri obiettivi di politica estera». Naturalmente, tutte queste misure dovranno alla fine essere approvate dal Consiglio europeo, un organo via via più composto da capi di governo sempre meno disposti ad approvare decisioni che li privino di sovranità e autonomia rispetto a Bruxelles. Un circolo vizioso che le prossime elezioni rischiano solo di rendere più difficile da spezzare.
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