avvocatoinprimafila il metodo apf

Dietro le quinte del rapporto tra Unione europea e lobby

Il luogo comune li vuole abili a destreggiarsi nelle zone d’ombra della politica, eminenze grigie che manovrano dal loro interno le istituzioni, burattinai senza nome né scrupoli che camminano sul filo della legalità. Nella visione più mefistofelica dei lobbisti, incarnata da quella scritta “Lobbying kills” con cui alcuni attivisti hanno tappezzato muri e strade di Bruxelles una settimana prima delle elezioni europee, si dissolvono le sfumature che caratterizzano la figura di soggetti entrati da tempo a far parte degli ingranaggi comunitari, e non necessariamente con intenti complottisti. Spettatori interessati del voto con cui il 26 maggio si rinnovano i 751 seggi di quel Parlamento dell’Unione europea che è centro di gravità – assieme alla Commissione – del lobbismo made in Eu.

Stando a quanto reso noto dal Parlamento europeo, attorno alle istituzioni dell’Ue orbitano oltre 82 mila lobbisti impegnati a influenzarne l’agenda. Quelli accreditati per entrare nell’edificio Louise-Weiss sono 7.094 – quasi 10 per ogni eurodeputato -, mentre sono 11.821 i gruppi di pressione iscritti al Registro per la trasparenza (dati del 22 maggio 2019), istituito nel 2011 e da allora sempre più affollato: multinazionali, ma anche associazioni di categoria, organizzazioni non governative, centri di ricerca, società di consulenza, studi legali, organizzazioni rappresentative di chiese e comunità religiose. Tutti vogliono un posto al tavolo europeo. Ora con un appuntamento ai piani alti della Commissione, organo esecutivo dell’Ue; ora con un incontro nei corridoi dell’Europarlamento, che negli ultimi anni ha acquisito un ruolo sempre più importante nella negoziazione delle regole che governano l’economia e l’industria europee.

Qui si scrivono le leggi. Qui il deputato ha la possibilità di incidere direttamente sul testo che interessa l’uno o l’altro gruppo di pressione, in particolare attraverso l’elaborazione all’interno delle 20 commissioni permanenti di emendamenti da sottoporre all’Aula. È in questo contesto, ancor prima che nella sequela di colazioni di lavoro ed eventi serali, che si sviluppa l’attività di lobby. Un deputato che faccia parte della commissione Trasporti o della commissione Commercio si può trovare a gestire anche 60 o 70 dossier molto specifici, racconta a Lettera43.it un lobbista con anni di esperienza tra Strasburgo e Bruxelles: «Non può sapere tutto di tutto. E non può non sentire i portatori di interessi se la legge su cui sta lavorando va a impattare su centinaia o migliaia di dipendenti».

OLTRE 11 MILA LOBBY REGISTRATE, 811 HANNO SEDE IN ITALIA

Conferma Umberto Gambini, assistente dell’eurodeputato catalano Ramon Tremosa i Balcells, che è stato coordinatore dell’Alleanza dei Liberali e dei Democratici Europei (Alde) nella commissione Problemi economici e monetari (Econ): «Se vuoi essere un buon regolatore, è utile che tu abbia gli input dei vari gruppi di interesse». Il contatto tra lobby ed eurodeputato passa spesso attraverso l’assistente di quest’ultimo: «Ricevo centinaia di email», dice Gambini. «Si cerca di sentire tutti, si raccolgono le diverse voci e poi si decide». Alcune realtà privilegiano il contatto individuale e diretto con il deputato, altre preferiscono “fare massa”: «È il caso, per esempio, di Deutsche Bahn (società ferroviaria tedesca di proprietà della Repubblica federale, ndr)», ricorda Gambini, «che fu molto attiva nell’opposizione alla separazione tra rete e operatore dominante e fece pressione passando attraverso l’associazione di riferimento».

Nella rosa di 11.821 gruppi di pressione registrati, i «lobbisti interni e associazioni di categoria, commerciali e professionali» fanno la parte del leone con 6.010 soggetti: agglomerati come Insurance Europe, in rappresentanza delle assicurazioni (24 persone accreditate al Parlamento europeo), European Chemical Industry Council – Cefic, l’associazione dell’industria chimica (23), e European Banking Federation (22), quella del settore bancario, sono tra i più assidui frequentatori dell’Europarlamento. Tra i soggetti con sede in Italia è Intesa SanPaolo ad avere il maggior numero di persone accreditate (nove) e costi dichiarati per l’attività di lobby compresi tra i 400 mila e i 500 mila euro, molto lontani dai principali big spender: in vetta ritroviamo il Cefic, con 12 milioni di euro nel 2018, seguito da Ja Europe (7,77 milioni di euro, ma il dato risale al 2016), no-profit attiva nell’educazione finanziaria che vede nel suo board manager dei maggiori colossi della finanza e della consulenza globale, e dall’Instituto de Telecomunicações portoghese (7,33 milioni nel 2017). A ruota, il colosso della consulenza Fti Consulting Belgium e quello delle pubbliche relazioni Fleishman-Hillard (tra i 6,75 e i 7 milioni di euro nel 2018).

L’ATTIVISMO DEI COLOSSI USA, ENEL SPENDE 2 MILIONI ALL’ANNO

Tra le aziende, le uniche a superare i 5 milioni di euro sono Google, con oltre 6 milioni (dato relativo al periodo gennaio-dicembre 2017), e Microsoft, con 5 (luglio 2017-giugno 2018), in linea con il crescente attivismo dei colossi statunitensi del tech registrato a Strasburgo e Bruxelles in una legislatura che è intervenuta pesantemente sui temi della concorrenza e del copyright. In Italia – quinto tra i Paesi dell’Ue per numero di soggetti registrati (811) dietro a Belgio (2.187), Germania (1.512), Regno Unito (1.109) e Francia (1.104) – svettano l’associazione dei consumatori Altroconsumo (tra i 5 e i 5,25 milioni di euro), la società di consulenza Cogea (3,25-3,5), il consorzio attivo nel settore della radiodiffusione Dab Italia (2,75-3) ed Enel (2-2,25).

Enel è tra i soggetti italiani ritenuti più influenti in questo momento, al pari degli altri big dell’elettrico. «Il concetto di influenza di un gruppo di pressione dipende anche dalla fase storica che l’Ue attraversa», spiega il lobbista. «Attualmente, il concetto mainstream è elettrico, ed è naturale che Enel come altre aziende del settore abbiano più capacità di incidere rispetto a chi opera nel carbone». Al netto di questo, ci sono Paesi le cui lobby hanno più peso e credibilità rispetto ad altre in un determinato settore: Germania e Regno Unito nell’automotive, gli Stati scandinavi nell’ambito della ricerca e dell’innovazione, i Paesi Bassi in quello di energia e ambiente. «In quest’ultimo campo, le Ong olandesi sono molto ascoltate non solo dal loro governo, ma anche da quelli di altri Stati», dice il lobbista. «A Bruxelles raccontano che, almeno in una occasione, il vostro vice premier [Luigi] Di Maio abbia ribaltato pareri dei tecnici dei suoi ministeri sulla base delle indicazioni ricevute da Ong olandesi».

IL CASO DELLA RAPPRESENTANZA PERMANENTE ITALIANA IN UE

Quando si tratta di lobby, ogni governo ha il suo approccio. Quello di Roma tende a essere piuttosto distaccato rispetto ai gruppi di interesse italiani che operano in Europa. Un esempio emblematico è quello della Rappresentanza permanente in Ue, organo di collegamento tra le autorità di Roma e le istituzioni comunitarie composto da «personale del ministero degli Affari Esteri e da “esperti” provenienti da altre amministrazioni» e impegnato «sia nella condotta dei negoziati nelle apposite istanze del Consiglio dell’Ue, sia nelle cura delle relazioni con Parlamento e Commissione». In sostanza, la voce e il braccio del governo italiano di stanza a Bruxelles. Se la rappresentanza di Stati centro-europei come Germania e Austria include spesso portatori d’interesse di aziende nazionali ritenute asset strategici dai rispettivi governi, per l’Italia questo accade meno di frequente.

Le informazioni da questo fronte, però, sono più opache. Come sottolinea a Lettera43.it Vicky Cann, membro dell’organizzazione no-profit Corporate Europe Observatory, «al contrario di quanto avviene per il Parlamento e la Commissione, la Rappresentanza permanente non ha un Registro per la trasparenza. E lo stesso vale per il Consiglio». Una disparità che è alla base delle critiche mosse all’Ue quando si parla di lobby, soprattutto considerato il potere dei governi nelle trattative sui diversi dossier. «Non è tutto da buttare, la situazione è migliore rispetto ad anni fa, ma ciò non toglie che vada migliorata», dice Helen Darbishire, direttore esecutivo di Access Info Europe, che con Corporate Europe Observatory fa parte della Alliance for Lobbying Transparency and Ethics Regulation (Alter-Eu), una coalizione di organizzazioni che monitorano i processi decisionali in Ue e che è essa stessa una lobby, iscritta com’è al Registro per la trasparenza. «Il problema non è il lobbismo, ma come avviene», continua Darbishire.

STUDI LEGALI E SOCIETÀ DI CONSULENZA SONO «IL VERO BUCO NERO»

Chi frequenta quotidianamente i corridoi di rue Wiertz individua in studi legali e società di consulenza – 1.098 degli oltre 11 mila soggetti registrati – «il vero buco nero» del lobbismo in Ue. «Se il giorno X in commissione Trasporti sono in agenda i lavori su un testo che riguarda la rete ferroviaria», ipotizza la fonte anonima, «e timbro io che sono un lobbista regolarmente accreditato per un colosso delle ferrovie di un qualsiasi Stato, è chiaro cosa sono entrato a fare in Parlamento. Basta fare due più due. Se invece», prosegue, «timbra un lobbista regolarmente accreditato per uno studio legale o una società di consulenza che rappresenta, diciamo, 10 multinazionali dei settori più diversi e, nello stesso giorno, sono in agenda anche i lavori in commissione Bilanci e commissione Commercio, chi e come stabilisce il motivo per cui questo lobbista è entrato in Parlamento? Quali interessi sta difendendo?».

Secondo gli addetti ai lavori, un’altra criticità è rappresentata dalla dichiarazione dei costi dell’attività lobbistica da parte dei vari soggetti, che manca di chiarezza – comprende le spese del personale? Le cene? Le bollette dell’ufficio di Bruxelles? – e di uniformità: qualcuno scrive voce per voce, qualcun’altro no. Inoltre, dice Cann, «diversi gruppi sottostimano le loro spese, mentre altri dichiarano cifre comprese in una fascia che è troppo ampia per essere d’aiuto». In questo quadro, il vulnus principale del Registro, oltre alla sua mancata estensione al Consiglio, rimane il principio di volontarietà che lo regola. Se da una parte l’accreditamento di un lobbista è possibile solo se il gruppo di pressione per cui lavora è iscritto al Registro, non è obbligatorio che un portatore di interesse figuri nell’elenco perché possa presentare le proprie istanze a deputati o commissari. Lo stesso accesso al Parlamento, che per i lobbisti registrati avviene mediante un apposito badge di colore marrone, è possibile per qualsiasi cittadino previo invito di un deputato o di un suo assistente.

L’ACCORDO MANCATO PER UN REGISTRO COMUNE (E OBBLIGATORIO)

Nell’ultima legislatura, i deputati Ue hanno cercato sia di estendere il Registro al Consiglio, creando una piattaforma comune, sia di rendere l’iscrizione obbligatoria, ma all’inizio del 2019 i negoziati sono naufragati – commentano a Lettera43.it dall’Europarlamento – a causa delle «resistenze degli Stati membri». «Non è stato un Paese o un gruppo in particolare a opporsi», aggiunge Gambini, «le resistenze sono state trasversali». Il dossier, però, resta sul tavolo. E tornerà d’attualità nella nuova legislatura. «Bisogna vedere che Parlamento ci troveremo davanti», commenta Darbishire. Anche se, aggiunge Gambini, «un’avanzata delle forze euroscettiche alle elezioni del 26 maggio potrebbe compattare gli altri gruppi e convincerli a completare la riforma del Registro», per dare un’ulteriore dimostrazione di trasparenza. In attesa che anche gli Stati membri – orfani in 21 casi su 28 di una legge nazionale sulle lobby – imbocchino la stessa strada.

Fonte

Exit mobile version