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Theresa May
Il caos. Difficile immaginare una parola diversa da questa per definire l’abissale confusione politica che avvolge i palazzi tra Westminster e Downing Street.
Terzo voto sull’accordo cui Teresa May affidava le sue speranze per una Brexit ordinata e il più possibile indolore, terza sconfitta.
Come se non bastasse, ai parlamentari britannici non piace l’accordo ma non piace nemmeno che non ci sia nessun accordo: l’altra settimana hanno bocciato anche l’eventualità di un no deal. Per dirla con la loro lingua madre: “Non puoi mangiare la torta e conservarla”.
Decidetevi, sembra dire ora l’Unione Europea, che assiste allo spettacolo della crisi del sovranismo britannico con un misto di soddisfazione e preoccupazione. È il fallimento, certo, dell’illusione di poter fare meglio senza l’Europa tra i piedi. Ma è anche la certezza che la l’uscita di Londra sarà una vera e propria mutilazione, e non solo dal punto di vista economico o sociale. L’Europa sarà davvero più piccola e più povera, e poco consola che chi starà peggio abita dall’altra parte della Manica.
“È finita”. Davvero?
Secondo gli accordi presi all’ultimo vertice europeo, in cui May è stata tenuta fuori della porta ad aspettare le decisioni degli altri 27 capi di stato e di governo, il divorzio avrà luogo il 12 aprile. Due settimane di tempo per trovare una soluzione che nessuno è stato in grado di individuare negli ultimi tre anni. Un nuovo vertice, che già si immagina sarà drammatico, è previsto per il 10: 48 ore prima del limite massimo.
In altre parole, i giorni a disposizione di Teresa May sono dodici, magari anche solo dieci. Annota felice uno dei capofila degli euroscettici britannici, Steve Baker dell’European Research Group: “È finita”.
In realtà le votazioni alla Camera dei Comuni non sono per nulla finite.
Da lunedì, infatti si attendono una serie di pronunciamenti su altrettante questioni di principio, o di minore portata. Ad esempio sulla proposta di mantenere con l’Ue un’unione doganale. Se non addirittura un ulteriore voto (sarebbe il quarto) sul piano del governo.
Ma contro questa sorta di accanimento terapeutico si è già dichiarato lo speaker della Camera, John Bercow, apertamente contrario alla prospettiva di concedere all’esecutivo il potere di stringere in un vero e proprio assedio il Parlamento fino a quando questo non ne accetta la linea politica.
Inoltre, se è vero che questa volta lo schiaffo per il governo è stato meno forte delle precedenti, restano comunque 58 i voti di differenza tra chi appoggia il governo e chi no. Uno scoglio al momento insormontabile, tanto più che i dieci parlamentari unionisti dell’Irlanda del Nord hanno già fatto sapere che quell’accordo, con la cessione di fatto della sovranità britannica lungo il confine tra le due Irlande, loro non lo voteranno mai.
Intanto – e questo è uno dei pochi punti che paiono fermi – sarà Teresa May a rappresentare il Regno Unito al Consiglio Europeo del 10 aprile.
Aveva promesso che se ne sarebbe andata, se Westminster avesse accettato il suo accordo. Nemmeno in questo le hanno voluto dare retta.
Tutto il resto è opinabile. Si farà un secondo referendum, magari per ripensarci? Chissà. Più probabile l’ipotesi di elezioni anticipate, come le vorrebbe il Labour guidato da Jaremy Corbin.
Ad ogni modo l’idea richiederebbe tempi un po’ più lunghi degli attuali, perché una consultazione riparatrice non potrebbe che essere preparata nel giro di mesi, non di giorni, se non altro per convincere l’amplissima percentuale dei Brexiteer a rimettere in gioco una vittoria per loro di importanza vitale.
Lo stesso vale per l’altro grande attore di questo dramma. L’Europa, uscita vincente dai negoziati tanto quanto la Gran Bretagna è emersa come perdente dalla loro mancata ratifica, aveva posto come data limite il 22 maggio anche solo per applicare l’intesa che comunque è stata bocciata.
Brexit, Theresa May dopo la terza bocciatura del suo piano per lasciare l’Ue . (Mark Duffy/AFP)
La somma perfidia
Dare più tempo per ricominciare da capo non è prospettiva che entusiasmi, anche se a Londra si spera che qualcuno preferisca evitare che vada in scena, in piena campagna elettorale per le europee, lo spettacolo dell’Isola in preda alle convulsioni post-brexit.
Secondo una serie di piani circolati in questi mesi, potrebbe accadere di tutto, dal blocco delle autostrade del Kent al crollo delle scorte dei medicinali negli ospedali. Per non parlare della necessità di mettere al sicuro la Regina Elisabetta e la famiglia reale.
Nessuno uscirebbe vincitore da una situazione simile. Qualcosa, quindi, potrebbe essere escogitato. Tanto più che inizia a circolare, dalle parti di Bruxelles, l’idea di concedere una proroga. Non troppo lunga: si parla di un paio di mesi.
Ma ad una condizione: la partecipazione del Regno Unito alle europee previste per il 26 maggio. Come dire: se volete andarvene senza essere umiliati, prima fate pubblica professione di europeismo.
Soavemente perfidio, anche per la Perfida Albione.
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