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Il petrolio di Hormuz può essere il fulcro della crisi Iran-Usa

La serie di misteriosi attacchi avvenuti nel fine settimana dell’11 e 12 maggio contro le navi dirette nel Golfo persico è la scintilla perfetta per una guerra tra l’Iran e gli Stati Uniti. O meglio tra l’Iran e chi protegge gli americani nella regione mediorientale, ovvero i nemici – per Teheran – sauditi e israeliani.

La provenienza delle navi all’ingresso dello Stretto di Hormuz, stando alle denunce rimaste gravemente danneggiate, non può essere casuale: trattasi di due petroliere saudite, una delle quali diretta a imbarcare petrolio da trasportare negli Usa; e di quattro navi commerciali degli Emirati Arabi che sono il braccio destro di Riad nella guerra in Yemen, contro i ribelli houthi sostenuti dall’Iran. Proprio da maggio, la Repubblica islamica ha iniziato a ritirarsi dall’intesa sul nucleare, preso atto delle sanzioni americane entrate a pieno regime e della portaerei Lincoln inviata da Donald Trump nel Golfo Persico carica di cacciabombardieri e di missili Patriot. Il colosso della marina Usa ha da poco superato Suez e si dirige verso Hormuz.

DA HORMUZ DIPENDE IL PREZZO DEL PETROLIO

All’uscita degli Usa, l’8 maggio di un anno fa, dall’accordo internazionale sul nucleare gli iraniani minacciarono immediatamente che avrebbero «bloccato lo stretto di Hormuz». Dai 30 chilometri strategici che dividono l’Iran dalla penisola arabica (e il Golfo persico dal Golfo dell’Oman) passa il 30% del trasporto del petrolio mondiale. L’altro snodo nevralgico per il commercio del greggio è lo Stretto di Malacca, tra l’Oceano indiano e il Mar cinese meridionale. Ma da Hormuz passa tutto il petrolio del Golfo persico, quasi il 60% delle riserve globali. Senza contare il gas naturale nelle acque tra il Qatar e l’Iran: circa il 45% dei giacimenti del pianeta, più del gas russo in circolazione se anche nella parte iraniana venisse sfruttato. Chiuso Hormuz, si stima che il prezzo del greggio volerebbe fino a 250 dollari al barile. Solo l’altolà degli Usa al petrolio iraniano e i venti di guerra di questa primavera hanno portato il Brent a sopra i 70 dollari al barile.

LE ESERCITAZIONI IRANIANE A HORMUZ

Un forte rialzo dell’oro nero sarebbe una boccata di ossigeno per la Repubblica islamica, e ancor più per il Venezuela in condizioni drammatiche sempre a causa (anche se non solo) della politica estera aggressiva di Trump; un Venezuela ricchissimo di petrolio che tra l’altro l’Iran sotto sanzioni sta aiutando inviando Oltreoceano farmaci e medicinali. Il «sabotaggio criminale» delle navi che lamentano l’Arabia Saudita e gli Emirati sarebbe insomma la ritorsione più scontata dei pasdaran – il corpo di élite dei Guardiani della rivoluzione iraniana inserito da Trump tra le «organizzazioni terroristiche – contro il «grande satana americano». Lo Stretto di Hormuz è per l’Iran la palestra per militari che il Mar nero è per la Russia: a ogni crisi si mostrano i muscoli con le esercitazioni. Già l’estate scorsa, alle prime sanzioni degli Usa contro Teheran, i pasdaran lanciarono un missile che sorvolò le petroliere di passaggio nell’affollato braccio di mare.

UNO STRETTO RIMASTO SEMPRE APERTO

Quale colpevole migliore dell’Iran per gli attacchi contro l’Arabia Saudita e gli Emirati? La realtà è che è fin troppo perfetto addossare agli ayatollah le ultime manovre incendiarie attorno a Hormuz. Da più di mezzo secolo gli iraniani promettono di bloccarlo, anche lo scià Reza Pahlavi fece di tutto per occupare più isole e più acque territoriali (condivise con il piccolo sultanato dell’Oman) possibili del passaggio che chiamò la «vena giugulare» dell’antica Persia. Ciò nonostante, Hormuz non è stato mai chiuso alle petroliere neanche negli anni più bui, come nei mesi tumultuosi della Rivoluzione islamica e della lunga crisi degli ostaggi all’ambasciata americana a Teheran, tra il 1978 e il 1981; durante la guerra con l’Iraq tra il 1980 e il 1988; nemmeno di recente durante l’embargo totale – degli Usa di Barack Obama e dell’Ue – contro la seconda Amministrazione Ahmadinejad, quando l’Iran era in mano agli ultraconservatori vicini ai pasdaran e la Lincoln varcò Hormuz minacciosa.

LE FORZE USA SCHIERATE NEL GOLFO PERSICO

La verità è che neanche per l’Iran è facile bloccare le navi lungo il profondo stretto di Hormuz. È vero che la Repubblica islamica ne detiene le chiavi, perché è più forte dell’Oman: nel porto di Bandar Abbas, lo scià fece costruire un’altra base navale proprio per «sorvegliare il traffico globale del petrolio dal versante opposto dell’Arabia Saudita». Le forze aeree e della marina iraniana sono concentrate nei 1.000 chilometri della costa che fronteggia la penisola araba. Ma anche prima che Trump facesse partire la superportaerei, gli Stati Uniti avevano schierata nel Golfo la quinta flotta: circa 15 mila unità, tra marina e aviazione, di base in Bahrain per assicurare il trasporto dei carichi di petrolio degli alleati. Nel gennaio 2016, a pochi giorni dall’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare firmato nel 2015, due piccole navi della marina americana furono intercettate e trattenute dai pasdaran per una notte nel tratto di mare tra il Kuwait e il Bahrain.

IL RUOLO NEUTRALE DELL’OMAN E DEL KUWAIT

Una schermaglia, forse architettata dagli ultraconservatori ostili agli Usa per tenerli con il fiato sospeso alla faccia del disgelo con Obama. Ma poi i marinai americani vennero rilasciati. Alzare davvero il livello dello scontro nell’area significherebbe per l’Iran forzare la mano con l’Oman, rimasto neutrale nello scontro tra l’Iran e i sauditi. E con il Kuwait, sulla carta dalla parte dei sauditi ma molto critico sull’embargo aereo e navale di Riad al Qatar e mediatore nella disputa. Dal 2017 l’emirato di Doha fa passare dal Kuwait e dall’Oman l’import bloccato dal fronte saudita, soprattutto merce turca e iraniana. Il Qatar e l’Iran, alleati contro i sauditi, hanno bisogno di questo cordone sanitario nel Golfo, tanto più che da Hormuz passa il 90% del trasporto di greggio iraniano, a questo punto con le sanzioni di Trump soprattutto verso l’Est asiatico. Per entrare le petroliere hanno bisogno dell’ok nelle acque iraniane, per uscire tutti dipendono dagli omaniti.

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