Pochi rappresentanti delle istituzioni europee sono popolari come Margrethe Vestager, il commissario alla Concorrenza che ha sfidato il dominio dei colossi del digitale, infliggendo multe pesantissime a Facebook, Google e Apple. La politica danese è una paladina del libero mercato e il modello economico che è venuto fuori dalla Silicon Valley è l’esatto contrario: un solo grande player per settore che, piano piano, ingloba o schiaccia tutti i possibili rivali. Il caso di scuola di abuso di posizione dominante, insomma.
La battaglia di Vestager ha fatto salire le sue quotazioni al punto tale da renderla il candidato di punta del suo raggruppamento, i liberali dell’Alde, per succedere a Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione Europea. Ma negli ultimi mesi il quadro è cambiato, e la corsa del commissario potrebbe essere finita prima ancora del lancio ufficiale della candidatura, atteso giovedì prossimo.
Secondo i sondaggi, i liberali usciranno dalle prossime elezioni europee come il terzo gruppo a Strasburgo e la speranza è di riuscire a raccogliere il sostegno di Verdi e Socialisti in modo da portare un proprio esponente al vertice dell’esecutivo comunitario. Ma la Vestager si è fatta ormai troppi nemici, sia in patria che altrove, per poter sperare di avere qualche chance. Colpa di un’intransigenza che ha finito per colorarsi di miopia politica.
Quel matrimonio s’aveva da fare
Quello che Vestager non ha capito è che il suo approccio senza compromessi le ha fatto guadagnare stima finché restava nell’alveo di un “sovranismo europeista”, teso a difendere il mercato interno dalle minacce esterne. Quando la stessa linea dura è stata adottata nei confronti di compagnie europee, ha suscitato un profondo malcontento. Di recente ha fatto discutere, sui media italiani, la sentenza della Corte di Giustizia Ue che ha dato ragione a Bankitalia e torto all’Antitrust Ue sul Fondo interbancario di tutela dei depositi, che non poteva essere considerato aiuto di Stato, come ritenuto dal dicastero guidato da Vestager. A scavarle la fossa è stato però il no alla fusione tra Siemens e Alstom, che avrebbe dato vita a un campione franco-tedesco nel settore ferroviario in grado di giocare ad armi pari con i concorrenti cinesi sui mercati internazionali.
Lo stop al matrimonio, che secondo Vestager avrebbe aumentato i prezzi per i consumatori, ha suscitato le ire dei governi di Parigi e Berlino e suscitato una discussione di carattere quasi esistenziale su quello che dovrà essere il futuro dell’Europa. Questa volta non sono le nazioni con debiti elevati, strangolate dai parametri di Maastricht, a lamentarsi di un eccesso di rigidità delle regole europee. È il cuore stesso dell’Europa, l’asse franco-tedesco, a essersi reso conto che con un’interpretazione troppo letterale delle norme, magari stabilite quando il mondo era un posto del tutto diverso, non solo si smette di fare politica ma ci si dà la zappa sui piedi.
Questo per Vestager è un grosso problema perché il maggior sponsor della sua candidatura avrebbe dovuto essere il presidente francese Emmanuel Macron, il cui partito En Marche! sarà molto probabilmente la prima forza all’interno dell’Alde dopo il voto di maggio. “Dobbiamo andare avanti e combinare liberalismo e protezionismo”, ha dichiarato a Politico un eurodeputato macroniano, Jean Arthuis, “altrimenti la Cina ci divorerà tutti”. “È un commissario molto coraggioso, la prima a infliggere multe ai colossi industriali”, gli fa eco un collega di partito, “dopo la faccenda della fusione tra Siemens e Alstom, sostenerla sarà però complicato”.
Né Vestager può sperare nella benevolenza di Berlino. Non solo perché Angela Merkel spera, come ovvio, che la guida della Commissione rimanga ai popolari, il cui spitzenkandidat è proprio il tedesco Manfred Weber, ma perché l’ultima iniziativa della responsabile dell’Antitrust Ue è un’inchiesta contro l’industria dell’auto tedesca. Se Vestager voleva strapparsi di dosso la nomea di “antiamericana” che si era guadagnata con la sua lotta contro Big Tech, forse non aveva compreso che era proprio tale nomea la chiave del suo successo.
In Danimarca la amano in pochi
L’altro grande ostacolo per la corsa della Vestager è il suo stesso governo. Spetta infatti a Copenaghen stabilire se ricandidarla per un ruolo ai vertici europei. E, su questo fronte, il commissario non sembra avere molti alleati. Il partito al quale appartiene, Radikale Venstre, appartiene alla stessa famiglia del Partito Liberale del primo ministro danese, Lars Løkke Rasmussen. Quest’ultimo è però al governo con i sovranisti di destra del Partito del Popolo, il cui leader, Kristian Thulesen Dahl, è tutt’altro che un amico di Vestager. “Lei vuole più Europa e meno Danimarca, noi vogliamo il contrario!”, ha twittato Dahl il mese scorso.
Certo, in Danimarca si voterà a giugno e Radikale Venstre sarà alleata con i socialisti, insieme ai quali potrebbe conquistare la maggioranza. Ma Vestager, quando era ministro delle Finanze, si era mostrata inflessibile anche con i sindacati, cosa che non le ha certo creato amici a sinistra. Anche i socialisti danesi sembrano quindi orientati, in caso di vittoria, a mandare un loro uomo a Bruxelles.
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