Mentre l’Italia litiga sulla sua visita, la Cina tace. Oggi però è il grande giorno. Questa sera atterra in Italia il Presidente Xi. Il Memorandum d’Intesa sulla Belt and Road Iniziative (BRI), ovvero la più conosciuta “Via della Seta” – definizione più morbida, avventurosa quanto suggestiva – ha finito per scatenare una ridda di voci e anche una rissa nella compagine di governo tra Lega e 5 Stelle. Su cui ha pesato anche il gioco a dividere dell’amministrazione Trump, con la diffusione di ampi dossier per mettere sull’avviso l’Italia dai rischi eventuali: dalle infrastrutture alle scelte strategiche sulle tecnologie (5G di Huawei, su tutte). Affari, dunque.
La “Via della seta” è la strada giusta da percorrere per l’Italia? Il dibattito l’ha aperto due giorni fa sul Corriere della Sera un editoriale di Antonio Polito che all’interrogativo rispondeva così: “Il problema dunque non è l’accordo. Il problema siamo noi, intesi come Italia e suo governo. Ciò che infatti genera sospetto quando non allarme nei nostri tradizionali alleati in America e in Europa è ciò che è avvenuto prima, e quello che può accadere dopo. Il problema è che, da quando è nato, il governo giallo-verde non ha dato un solo segnale chiaro di quale sia la direzione di politica estera che vuole imprimere all’Italia. Verso Budapest e Varsavia? O verso Mosca? Verso Trump o verso Xi Jinping? Non che si debba per forza scegliere con chi stare, intendiamoci; ma da quale parte stare sì. I democristiani, durante la Prima Repubblica, scelsero con tanta nettezza da che parte stava l’Italia che poi si poterono permettere più di qualche affare fuori dal giro”.
Il problema è pertanto geopolitico, di collocazione, secondo l’editorialista di via Solferino.
Tema sul quale Il Foglio è netto: “Toglieteci tutto, ma non l’atlantismo”, scrive il quotidiano. Ma sul Corriere odierno Marco Tronchetti Provera, vicepresidente e a.d. Pirelli, avverte in un’intervista che con più regole e meno ideologia “se gli accordi sono chiari l’Italia avrà soltanto benefici”: “La Cina? È una grande opportunità”.
Mentre Federico Fubini sulle stesse colonne del Corriere mette in guardia sui rischi di una frenata per l’economia cinese con una rivisitazione al ribasso degli indici di crescita del Pil: “Dal 2008 al 2016 il Pil cinese va corretto al ribasso in media dell’1,7% ogni anno. Il prodotto lordo delle costruzioni sarebbe al ristagno e il gettito dell’imposta sul valore aggiunto dell’industria sotto zero dal 2014. Dal momento delle Grande recessione nel 2008 la Cina ha continuato a crescere, secondo le nuove stime, ma a un ritmo medio vicino al 6% e non all’8%. Ne deriva che anche il debito totale di famiglie, Stato e imprese, già oggi ufficialmente ad un preoccupante 250% del Pil, sarebbe più alto”.
Di “Via della Seta e Potere” scrive invece Il Sole 24 Ore: “È la visita di un ospite non qualsiasi accompagnata da un dibattito surreale: Cina sì, Cina no. Se vogliamo fare affari con quell’universo dobbiamo saltare sul treno della Via della Seta, è la versione ufficiale. Se non lo facciamo perdiamo una grande occasione. È una sciocchezza. Come se fosse possibile non fare affari con la seconda potenza economica al mondo: quella in maggiore espansione, con maggiori progetti, più idee, più consumatori. Li fanno eccome i francesi, i tedeschi, gli inglesi, i canadesi, figuriamoci i giapponesi. Anche gli americani, nonostante il contenzioso trumpiano sui dazi”.
Al di là della geopolitica c’è dunque un risvolto più pragmatico, di cui parla la Repubblica nelle pagine economiche, e ha a che vedere con il fatto che Pechino, “dalle acquisizioni ai Panda Bond”, qui da noi ha già speso 15 miliardi. “L’epoca d’oro delle acquisizioni cinesi va dal 2014 al 2016”, spiega al quotidiano Alessia Amighini, esperta di Asia dell’Ispi. “Fu in quel periodo che Chem China si comprò per la bellezza di 7 miliardi gli pneumatici alta gamma di Pirelli. Ma in prospettiva Via della seta il precedente più interessante è l’ingresso di State Grid Corporation, prima utility al mondo, in Cdp Reti, cassaforte delle nostre infrastrutture energetiche Terna, Snam e Italgas. Era il 2014, governo Renzi, ma tutto torna. Da poco la Cassa depositi presiede il forum d’affari Italia-Cina, preludio di nuovi accordi a Oriente. Nel frattempo Pechino ha acquisito pure la rete elettrica greca e messo nel mirino quella portoghese. Negli ultimi due anni gli investimenti cinesi nell’Unione si sono drasticamente ridotti, in parte per una stretta imposta da Xi e in parte per le maggiori resistenze dei Paesi europei. «Le infrastrutture però sono sempre una priorità” conclude l’esperta.
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