SEAN DEMPSEY / PRESS ASSOCIATION / AFP
Le Spice Girls con Victoria Beckham (a sinistra)
La reunion delle Spice Girls, tanto attesa e celebrata dai fans di tutto il mondo, non parte certo con il piede giusto. Le quattro ragazze inglesi, orfane di Victoria Beckham, che a cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000 hanno fatto sognare e ballare un’intera generazione di teenager da un capo all’altro del mondo, da sempre portano avanti battaglie a favore delle donne. Ai tempi avevano dato anche un nome alla loro missione, “Girls Power”, quello che oggi sarebbe probabilmente declinato in un hashtag; missione messa al centro del loro operare all’interno dello showbiz forse come nessun’altra realtà pop femminile aveva mai fatto prima e mai farà dopo.
Passano gli anni ma i problemi per le donne restano, quella disparità sociale dovuta all’essere di sesso femminile è ancora un problema di primissimo allarme. Così le Spice Girls decidono di dedicare parte della luce derivante da una reunion davvero storica alla causa. Presupposto giusto e onorevole, se non fosse che le magliette con la scritta #Iwannabeaspicegirl indossate in un servizio fotografico pompato sui social e messe in vendita al prezzo di 19 sterline per aiutare l’associazione Comic Relief impegnata nella campagna per la parità di genere, pare, secondo un articolo del The Guardian, siano state commissionate ad una fabbrica del Bangladesh, la Interstoff Apparel, che pagherebbe i dipendenti (la maggior parte donne/ragazze) non più di 40 centesimi di euro l’ora, con turni massacranti che arriverebbero a durare anche 16 ore.
Il quotidiano inglese porta la testimonianza di Salma (nome fittizio), 20 anni, che descrive la sua vita in fabbrica (e fuori) come un vero inferno. Paghe e orari sarebbero legati ad obiettivi irraggiungibili tipo “cucire fino a 2.000 indumenti al giorno”, i responsabili, i capi diretti di Salma, vengono descritti come volgari sfruttatori che, tra un insulto e un altro, non si farebbero problemi nemmeno a costringere donne incinta a straordinari disumani. Straordinari che sarebbero all’ordine del giorno secondo il racconto di Salma, che sostiene che almeno la metà dei giorni lavorativi di un mese resterebbe in fabbrica a cucire dalle 8 del mattino fino a mezzanotte.
Un lavoro che porta inevitabilmente dolori fisici a collo e schiena, Salma si è fatta consigliare da un medico degli esercizi per curare questi dolori dovuti ad una postura tenuta salda per troppe ore, ma significherebbe mettersi in pausa dal lavoro ogni giorno per dieci minuti e questo non è possibile. Una collega di Salma, più grande, che lavora nella stessa fabbrica dal 2013, nel descrivere al quotidiano inglese la sua situazione dice che 19 sterline, il prezzo della maglietta rivenduta nel regno Unito, loro non lo guadagnano in una settimana.
Le Spice Girls venute a conoscenza della situazione si sono dichiarate “profondamente scioccate e inorridite” e si sono proposte di finanziare un’indagine sulle condizioni di lavoro in quell’azienda. Anche l’associazione Comic Relief ha mostrato ufficialmente preoccupazione per la vicenda. Del resto nessuno ipotizza che le quattro celebrità coinvolte fossero a conoscenza della situazione. La piena responsabilità è stata invece assunta da “Represent”, il venditore online contattato dalla band inglese e che avrebbe cambiato fornitore all’ultimo momento senza avvisare.
Nel frattempo la Interstoff Apparel, azienda che fa capo a Shahriar Alam, ministro degli affari esteri del governo del Bangladesh che si è insediato circa un mese fa e sospettato di aver truccato le elezioni vinte con il 96% dei voti, respinge ogni accusa.
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