Da oggi fino al 19 maggio oltre 900 milioni di indiani sono chiamati alle urne per le elezioni generali, che si preannunciano come una sfida tra i due partiti storici, il Partito del Popolo indiano del premier uscente Narendra Modi, in lizza per un secondo mandato, e il Partito del Congresso di Rahul Gandhi, all’opposizione.
Un voto a ‘puntate’ che durerà sei settimane per rinnovare i 543 seggi del Lok Sabha, la Camera Bassa. I 29 stati voteranno a turno con sette date in agenda mentre i risultati dovrebbero essere comunicati il 23 maggio. Sarà il colore politico del Parlamento indiano a determinare poi quello del governo centrale.
Queste elezioni sono le più imponenti mai organizzate in India, con circa 8 mila candidati in lizza e un milione di seggi allestiti.
In sostanza si ripete il faccia a faccia tra le due storiche formazioni politiche della più grande democrazia al mondo, con un ‘duello’ tra Modi, leader del Bahratiya Janata Party (Bjp), e Gandhi, presidente dell’Indian National Congress (Inc).
Due le strade che si apriranno per la potenza emergente: confermare al potere i nazionalisti indiani oppure scegliere l’alternanza.
“Un’India determinata, un’India più potente” è lo slogan elettorale del Bjp del nazionalista Modi, 68 anni, che trionfò alle ultime elezioni del 2014, quando riuscì a conquistare 282 seggi in Parlamento, circa il 31% dei consensi.
Da bambino vendeva tè, ora gestisce una bomba demografica ed una atomica
Il Partito del Popolo indiano è una costola della potente organizzazioni nazionalista indù, Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss).
Punti centrali degli impegni di governo per i prossimi cinque anni sono la sicurezza nazionale, con il proseguimento della politica “tolleranza zero” contro il terrorismo, il rilancio dell’economia indiana per farla diventare la terza più forte al mondo entro il 2030 e la costruzione di un tempio dedicato a Ram nel sito di Ayodhya, nel punto in cui dal ‘600 sorgeva una moschea moghul distrutta da estremisti indù nel 1992.
Il partito arancione del Bjp si è impegnato a cancellare l’articolo 35 della Costituzione indiana che assegna al Jammu e Kashmir lo statuto di regione speciale.
Sul piano sociale Modi ha annunciato ingenti investimenti per migliorare le condizioni di vita degli agricoltori con un raddoppio del loro reddito entro 3 anni e la garanzia di ottenere la pensione per quanti hanno superato 60 anni.
In risposta alle sterminate richieste di cure, in un Paese di 1 miliardo e 360 milioni di abitanti, il premier uscente ha prospettato la creazione di 75 nuove facoltà di medicina.
A sostegno dell’industria manifatturiera il Bjp porterà avanti il suo programma “Make in India”, che si basa sulla capacità di attrarre investimenti.
Il volto di Modi, barba bianca e occhiali sottili, è onnipresente nella vita quotidiana degli indiani: cartelloni e inserti ufficiali, trasmissioni radiofoniche, copertura mediatica continua, reti sociali e un film in visone gratuita al cinema.
Venditore di tè durante l’infanzia, il premier uscente gode tutt’ora di grande popolarità grazie alle sue origini popolari, all’immagine di uomo forte e per il suo atteggiamento determinato nei confronti del ‘fratello nemico’ pachistano.
Tallone di Achille della sua presidenza è il bilancio economico, che ha patito del fallimento della messa fuori corso, a sorpresa, delle banconote da 500 e 1000 rupie per lottare contro l’evasione fiscale.
Il tasso di crescita del 6,7% è positivo ma considerato insufficiente viste le potenzialità del Paese e le sue sfide demografiche, in particolare l’insufficiente creazione di posti di lavoro per il milione di giovani che ogni anno entrano sul mercato mentre nelle campagne crescono malcontento e povertà.
Il discendete di Nehru che guarda ai poveri e alle donne
Il principale contendente di Modi è il 48enne Rahul Gandhi, subentrato alla madre Sonia alla guida del partito del Congresso che sta cercando di rinnovare e ristrutturare, dopo lo schiaffo elettorale di 5 anni fa, quando ottenne solo il 19,31% dei consensi, il peggior risultato della sua storia. Prosperità e benessere sono i punti centrali del suo programma elettorale.
Per raggiungere questi traguardi Gandhi destinerà alle famiglie più povere – il 20% della popolazione – un reddito minimo garantito oltre a una serie di misure per far aumentare l’occupazione, cancellare i debiti dei contadini, sviluppare l’agricoltura, modificare il sistema di tassazione.
Il Congresso rivolgerà un’attenzione particolare alle donne con la revisione delle leggi sul lavoro femminile, la creazione di un’agenzia speciale di investigazione sui crimini contro donne e bambini e quote rosa del 33% in Parlamento.
Gandhi ha anche promesso di rafforzare la lotta alla corruzione, riformare alcune leggi elettorali, accrescendo i controlli sul voto elettronico e regolamentando i finanziamenti ai partiti.
India, Rahul Gandhi e la madre Sonia nell’aprile 2019 (Sanjar Kanoja/AFP)
Pronipote, nipote e figlio dei primi ministri indiani, Rahul incarna l’avvento di una nuova generazione della famosa dinastia politica Nehru-Gandhi.
Oltre ad avere il pesante fardello di rinnovare e riportare al potere il longevo e logorato Congresso ambisce ad indirizzare l’India sulla via dell’alternanza dopo anni di dominio dei nazionalisti.
Ago della bilancia elettorale saranno i partiti regionali rimasti fuori dalle alleanze politiche che fanno capo ai due principali partiti: da una parte la National Democratic Alliance (Nda) legata al Bjp e dall’altra la United Progressive Alliance (Upa), alleata del Congresso.
Tra le formazioni rimaste ‘indipendenti’ gode di una certa influenza il Samajwadi Party (Sp), di Akhilesh Yadav, nell’Uttar Pradesh, che ha la sua base elettorale tra le caste basse hindu e tra i musulmani.
Molto seguito anche il Bahujan Samaj Party (Bsp) di Mayawati, principale leader dei dalit indiani, gli “intoccabili”.
Nel West Bengal è invece in posizione di forza il Trinamool Congress di Mamata Banerjee, la leader che governa questo stato orientale dal 2011, interrompendo 35 anni di dominio di forze politiche di sinistra.
Le elezioni generali indiane si svolgono in un clima di rinnovata tensione con il Pakistan sul territorio conteso del Kashmir, Stato a maggioranza musulmana amministrato da Nuova Delhi e Islamabad.
A riaccendere la crisi diplomatica più grave dal 1971 – anno della guerra indo-pachistana per il dominio su quel territorio – è stato un attacco kamikaze che lo scorso 14 febbraio ha mietuto 42 vittime tra le forze di sicurezza indiane nel Kashmir. Nuova Delhi ha reagito facendo bombardare il villaggio pachistano di Kotli, con un bilancio di circa 350 morti.
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