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Ricordate la ragazza alla guida in Arabia? È in carcere sotto tortura

Ricordate la ragazza alla guida in Arabia? È in carcere sotto tortura

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Loujain al-Hathloul

Articolo aggiornato il 28 gennaio 2018 alle ore 21,20.

Forse non tutti ricordano il suo nome, ma sicuramente la sua storia sì: nel 2014 il video che ritraeva Loujain al-Hatlhoul alla guida di una macchina in Arabia Saudita divenne virale, aprendo la strada ad altre battaglie per i diritti delle donne nella patria del giornalista e dissidente brutalmente assassinato, Jamal Khashoggi. Già, chi denuncia e lotta per i propri diritti non ha la vita facile a Riad.

La sorte riservata a Loujain è tornata alla ribalta della cronaca nei giorni scorsi, con un articolo sul ‘New York Times’ firmato Alia al-Hatlhoul, sorella della leader del movimento ‘Women2Drive’, detenuta da maggio 2018. “A Riad, tappa più difficile del suo lungo tour in Medio Oriente, c’è un argomento che Mike Pompeo non affronterà: le coraggiose donne attiviste dell’Arabia Saudita che sono rinchiuse in prigione per aver cercato diritti e dignità. L’apatia di Pompeo è un problema personale per me perché una delle detenute è mia sorella. Lei ha lavorato senza sosta perché le saudite avessero il diritto di guidare”, ha scritto Alia alla vigilia della missione del Segretario di Stato americano, la settimana scorsa.

In prigione per aver guidato

Nel 2014 Loujain, classe 1989, originaria di Gedda, in possesso di una patente degli Emirati arabi uniti, guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita e tentò di attraversarlo. Il video, caricato su You Tube, ebbe 800 mila visualizzazioni e tremila commenti, divisi tra sostenitori e critici. L’anno prima, con il marito accanto, l’attore saudita Fahd al-Butayri, si era filmata mentre tornava a casa a Riad, guidando.

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Loujain al-Hathloul

Un gesto per noi banale, ma sovversivo in quella parte di mondo: il primo dicembre 2014 Loujain venne arrestata per aver sfidato il divieto di guida nel regno. Il caso era finito dinanzi ad un tribunale militare in quanto rientrava sotto la nuova legge antiterrorismo, trattandosi di un fatto che danneggia la reputazione del Paese. La giovane attivista passò allora 73 giorni in prigione oltre ad essere condannata al divieto di espatrio per diversi mesi.

Nel novembre 2015, dopo la concessione alle donne del diritto di voto da parte della monarchia saudita, Loujain si candidò alle elezioni locali, ma il suo nome non è apparso nelle liste, nonostante l’ammissione ufficiale delle sua candidatura. Lo stesso anno è stata inserita al terzo posto della classifica ‘Top 100 donne arabe più potenti’.

Una battaglia vinta: far guidare le donne

In realtà Loujain aveva rilanciato una battaglia cominciata dalle sue compatriote nel 1990, quando a decine si misero al volante per protesta, furono imprigionate per 24 ore, alcune di loro persero passaporto e lavoro. Nel 2008, dopo una petizione presentata al re Abdullah, una delle sue promotrici, l’attivista Wajeha al-Huwaider si era filmata al volante mentre guidava all’interno di un complesso residenziale.

Le immagini diffuse su You Tube suscitarono l’attenzione internazionale. Poi nel 2011, un gruppo di donne lanciò la campagna ‘Women2Drive’, un vero e proprio appello all’azione. Su Facebook, l’iniziativa guadagnò consensi e oltre 10mila persone espressero sostegno, ad esempio all’attivista Manal al-Sharif che si fece filmare mentre guidava, venne arrestata e poi rilasciata. Con altre attiviste del movimento ‘Women2Drive’, in primis la al-Sharif, Loujain ha portato avanti la battaglia per il diritto di guida delle donne, con campagne di grande successo sui social. La loro lotta si è conclusa con l’emanazione – il 26 settembre 2017 – da parte del principe ereditario Moḥammed bin Salmān, di un decreto reale che stabiliva il rilascio delle prime patenti di guida femminili da giugno 2018.

L’Arabia Saudita è al 141mo posto su 149 dell’ultimo ‘Global Gender Gap Report’ del Forum economico mondiale. Le donne vengono considerate eterne minorenni, pertanto sottoposte al controllo di un “guardiano”, un uomo della sua famiglia, che supervisiona tutti gli aspetti principali della vita e ha potere sulle decisioni più importanti come lavorare, studiare, sposarsi, divorziare.

Nuovamente arrestata e detenuta da maggio 2018

Il 4 giugno 2017 Loujain è stata arrestata per la seconda volta, all’Aeroporto Internazionale di Dammam-Re Fahd, in Arabia saudita. La ragione per l’arresto non è stata chiara e non le è stato concesso di avere un avvocato o di contattare la sua famiglia.

Quando Riyad annunciò la fine dell’anacronistico divieto di guida per le donne, Loujain ricevette una telefonata in cui le autorità le impedivano di commentare la notizia o parlarne sui social. Per sfuggire al divieto si è trasferita negli Emirati Arabi Uniti, studiando per conseguire un master in sociologia all’Università della Sorbona di Abu Dhabi. Un soggiorno interrotto lo scorso marzo quando la giovane donna è stata prelevata dai servizi di sicurezza – assieme al marito – e riportata a Riad, dove è stata incarcerata e poi rilasciata. Da maggio 2018, però, non è mai più uscita dal carcere. Secondo alcune fonti, il marito di Loujain, invece scarcerato, avrebbe divorziato dietro pressioni esercitate dalle autorità.

“Speravo che Loujain sarebbe stata rilasciata il 24 giugno, il giorno in cui è stato rimosso il divieto di guida per le donne. Ma non è successo. Io sono stata zitta sperando che il mio silenzio la proteggesse”, ha raccontato la sorella in un recente articolo sul ‘New York Times’.

Vittima di torture in carcere

Tre mesi dopo l’arresto, lo scorso agosto Loujain è stata trasferita in un carcere a Gedda, sua città natale, e finalmente i genitori sono riusciti a vederla. “Tremava costantemente, non riusciva a stare seduta o a tenere qualcosa in mano” ha scritto Alia, riferendo che durante l’ultima visita lo scorso dicembre l’attivista ha raccontato in lacrime ai genitori delle torture subite.

“È stata picchiata, affogata con il waterboarding, sottoposta a scariche elettriche, minacciata di stupro e more. Il tutto alla presenza di un consigliere reale, Saud al-Qahtani” ha denunciato la sorella di Loujain. Il mese scorso è stata nuovamente spostata dalla prigione Dhahban di Gedda a quella di al-Ha’ir nella capitale. 

“Avrei preferito scrivere queste parole in arabo su un giornale saudita, ma dopo il suo arresto la stampa locale ha pubblicato il nome di mia sorella e la sua fotografia bollandola come una traditrice mentre si guardano bene dal fare i nomi degli uomini accusati dell’omicidio di Khashoggi” conclude così Alia sul ‘New York Times’.

La denuncia di Amnesty contro Riad

A confermare le “disumane” condizioni carcerarie inflitte dalle autorità saudite alle militanti femministe detenute arbitrariamente è l’ultima inchiesta di Amnesty International, spingendo le istituzioni di alcuni Paesi occidentale a chiedere a Riyad “maggiore trasparenza” e di aprire i propri centri di detenzione a “ispezioni internazionali”.

Il rapporto denuncia la situazione “drammatica” di una decina di esponenti di spicco del movimento femminista nel regno – tra cui Loujain – trasferite in prigione senza avere mai ricevuto la notifica formale di “alcun capo di imputazione”, senza aver avuto la possibilità di contattare un avvocato.

L’imponente ondata di arresti condotta nel maggio 2018 è stata giustificata dalla Casa reale da “esigenze di sicurezza nazionale”. Sulla base delle testimonianze indipendenti raccolte, è emerso che le attiviste sono state sottoposte a “raccapriccianti interrogatori” per poi subire in carcere “vessazioni atroci: frustate, stupri di gruppo, waterboarding, elettroshock” inflitti dagli agenti penitenziari.

Per l’ong le ultime informazioni raccolte, dopo quelle già emerse lo scorso novembre, “rendono urgentemente necessaria un’indagine indipendente”. “Siamo molto preoccupati per lo stato di salute di queste attiviste, che da nove mesi sono arbitrariamente detenute solo per aver difeso i diritti umani”, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International. Finora nessun commento dalle autorità del Paese islamico.

Chi è in carcere e chi è riuscito a fuggire

Oltre a Loujain, il dossier di Amnesty fa riferimento a Aziza al-Youssef, entrambe considerate “pioniere” del femminismo saudita.  Ma agli arresti da otto mesi ci sono anche Eman al-Nafjan, Shadan al-Anezi e Nour Abdulaziz – attualmente nel carcere di al-Ha’ir – Samar Badawi e Amal al-Harbi – in quello di Gedda – Nassima al-Sada in quello di Damman, Mayaa al-Zahrani, Abir Namankani, Ruqayyah al-Mharib e Hatoon al-Fassi. Tra gli attivisti prigione figurano Abdulaziz al-Mish’al, Mohammad al-Rabe’a, Khalid al-Omeir e Mohammad al-Bajadi, membro fondatore dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici. A dicembre è stato rilasciato il noto avvocato Ibrahim al-Modeimigh, in condizioni poco chiare.  

Inoltre negli ultimi anni l’Arabia saudita ha ripreso le esecuzioni capitali, con circa 150 attuate nel 2018. Per la prima volta la pena di morte potrebbe essere inflitta ad una donna, l’attivista Israa al-Ghomgham, condannata per le sue battaglie non violenti per i diritti umani.

In questa nuova generazione di donne che usano la tecnologia per raccontare le loro storie, considerate pericolose dall’Arabia saudita, c’è chi invece riesce a scappare. Come la 18enne Rahaf Mohammed Al-Qunun, che ha chiesto aiuto su Twitter, si è barricata per giorni in un hotel dell’aeroporto di Bangkok prima di essere accolta come rifugiata in Canada. “L’Arabia Saudita è come una prigione. Non posso prendere le mie decisioni. Le ragazze saudite sono schiave” ha raccontato Rafah dal suo esilio canadese. Secondo alcune stime diffuse da sociologi e ricercatori, ogni anno oltre mille donne fuggono dal regno arabo. 

Appello sul ‘New York Times’

“Trump ha ragione quando dice che l’Arabia saudita è un alleato importante. Motivo per cui è importante avere un leader decente, modernista piuttosto che uno in faida contro i vicini, che rapisce il primo ministro del Libano, invade lo Yemen, uccide un giornalista e tortura donne schiette” ha scritto il giornalista Nicholas Kristof sul ‘New York Times’, precisando di “non aver mai sentito alcun membro dell’amministrazione Trump fare il nome di Hathloul o chiederne la liberazione”. Nella sua analisi Kristof deplora che finora “Trump, Pompeo e Kushner si siano rifiutati di utilizzare la leva enorme sull’Arabia saudita – in quanto dipende da noi per la sua sicurezza – per migliorare i diritti umani nel Paese”.

“Per Khashoggi, che era un mio amico, non possiamo fare nulla per farlo tornare. Allora rivolgiamo la stessa attenzione a quanti sono ancora in vita, come Hathloul e le nove altre donne attiviste per i diritti che sono detenute, di cui alcune hanno denunciato di aver subito torture”: è l’appello lanciato dalla nota firma del quotidiano statunitense.

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