La premier britannica Theresa May ha annunciato le dimissioni da leader del partito conservatore per il 7 giugno esprimendo «rammarico» per non essere riuscita ad attuare la Brexit e affidandone la realizzazione al suo successore alla guida dei Tory, che dovrà essere eletto nelle successive settimane per poi subentrarle come primo ministro a Downing Street.
La premier ha concluso in lacrime il discorso: «Ho servito il Paese che amo», ha rivendicato prima di girarsi e di rientrare attraverso il portoncino al numero 10. In carica dal 2016, più volte ha resistito alla guida del Regno Unito quando i più la davano per finita. L’ultima proposta di accordo per la Brexit, scritta per venire incontro alle opposizioni e comunque bocciata, conteneva troppe concessioni perché fosse accettata dall’ala dura dei Tory. «Ho fatto del mio meglio, purtroppo non sono riuscita a far passare» la ratifica della Brexit, malgrado ci abbia «provato tre volte», ha detto la May, invitando chi le succederà alla guida dei Tory e del governo a portare a termine l’uscita dall’Ue ma anche a non considerare il compromesso una parola sporca. La premier britannica ha rivendicato quindi la politica di «un partito conservatore patriottico», che nella sua visione deve continuare a mirare a «unire la nazione» e a ridurre anche le ingiustizie sociali, predicando «scurezza, libertà e opportunità».
«È STATO L’ONORE DELLA MIA VITA»
«Io presto lascerò l’incarico che è stato l’onore della mia vita avere», ha detto la May nel chiudere il suo statement, mentre la voce le si rompeva in gola. «La seconda donna primo ministro», ha sottolineato, «ma certamente non l’ultima».
Quindi le parole conclusive, connotate da forte emozione e pronunciate a fatica con le lacrime che evidentemente le salivano agli occhi: Ho svolto il mio lavoro «senza cattiva volontà, ma con enorme e duratura gratitudine per aver avuto l’opportunità di servire il Paese che amo».
JOHNSON IN POLE PER LA SUCCESSIONE
Il discorso di addio raccoglie omaggi e poche riserve sia tra i sostenitori che tra gli avversari interni al suo partito conservatore, quanto fra esponenti delle forze di opposizione. «Un discorso di grande dignità da Theresa May», ha twittato fra i primi Boris Johnson, dimessosi a suo tempo da ministro degli Esteri in polemica con la sua linea considerata troppo moderata sulla Brexit e ora indicato da molti in pole position per la successione. Johnson ringrazia la premier uscente per «il suo stoico servizio al Paese e al Partito». «Ora», conclude, «è tempo di andare avanti verso ciò che lei sollecita: unirci e attuare la Brexit».
CORBYN CHIEDE LE ELEZIONI
Jeremy Corbyn ha accolto come una scelta giusta, quanto inevitabile, l’annuncio delle dimissioni, ma non crede che un nuovo leader Tory possa fare meglio e torna a invocare elezioni anticipate. La premier – commenta il leader dell’opposizione laburista – «ha ammesso ciò che il Paese sa da mesi: che lei non può governare e neppure può il suo partito, diviso e in via di disintegrazione«. Quindi la richiesta del Labour: «Immediate elezioni politiche» nel Regno Unito.
L’INCREDIBILE TENACIA
La seconda premier della storia britannica dopo Margaret Tatcher, era già stata data per spacciata più volte da quando nel luglio 2016 ha sostituito il primo ministro David Cameron, dimessosi dopo il voto sulla Brexit. E ha dimostrato una tenacia (secondo i critici attaccatura al potere) che in pochi si aspettavano. Nel 2017 ha indetto un’elezione generale tre anni prima della scadenza della legislatura nella speranza di rafforzare la maggioranza dei conservatori. Il risultato è stato l’opposto: i Tory hanno perso la maggioranza e per rimanere il governo hanno dovuto chiedere il sostegno del Dup, il Partito Unionista Democratico dell’Irlanda del Nord.
LE BOCCIATURE DELLA BREXIT
Dopo un azzardo non richiesto e un’umiliazione così forte, la premier è andata avanti come se nulla fosse (mentre tra i Tory cresceva il malumore) fino alla crisi successiva. Nel novembre 2018, in polemica con la sua gestione dell’accordo sulla Brexit, quattro ministri del suo governo l’hanno abbandonata. A dicembre ha affrontato e vinto un voto di sfiducia proveniente dall’interno del suo partito, dove le correnti contrarie alla sua leadership si erano fatte nel frattempo sempre più ostili e corpose. Un mese dopo, si è salvata di nuovo. Annichilita il 15 gennaio dal voto a valanga dei Comuni contro il suo accordo sulla Brexit, la premier Tory ritrova d’incanto la propria maggioranza per bloccare la mozione di sfiducia al governo del leader laburista Jeremy Corbyn. E, senza cambiare quasi una virgola della sua retorica, si era riproposta salda per l’ennesima volta alla guida del governo. Alla fine è stato il suo stesso partito a decretarne la fine.