ROMA – Questa è la storia di una resilienza e di rinascita. Di una macchina che, come fosse un cartoon Disney, non voleva – e non poteva – finire chiusa in un deposito e dimenticata da tutti e da tutto. Una Lamborghini Miura S del 1971, poi.
Non scherziamo, state dicendo? Chi potrebbe dimenticarsi di una Lamborghini? Eh, invece succede anche questo, che anche i gioielli vengano messi in un angolo e lasciati a impolverarsi. Ma sabato 14 agosto questa Miura bianca avrà finalmente di nuovo il suo palcoscenico, quando il battitore d’asta di Sotheby’s – in occasione della settimana di Pebble Beach – snocciolerà i dati e il numero di telaio (4761), con il fondato obiettivo di trovare un compratore. Pardon, un nuovo amatore.
Allora, eccola la storia di questa vettura. Dall’Iran viene spedita in America da una facoltosa famiglia iraniana (la leggenda vuole che fosse anche imparentata con lo scià, dettaglio che impreziosisce la storia) per la figliola di 19 anni, affinché raggiungesse con le giuste comodità l’Università a Berkeley (e di questo esistono foto a iosa della Miura S parcheggiata all’ingresso dell’Università). Il patto familiare in realtà prevedeva solo il trasporto, in modo che la fanciulla non attirasse l’attenzione usandola per andare in università. Avrebbe dovuta essere venduta, quella Miura ma, sapete come sono fatti i giovani… e poi volete mettere il fascino che esercita la sportiva del Toro rampante di Sant’Agata Bolognese? Non smentendo la sua reputazione, la Lamborghini evitò il passaggio di proprietà per circa due anni, campeggiando più o meno felicemente in California (lo confermano le fatture di riparazione), fino a una botta – decisiva – della giovin proprietaria.
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Non che il danno fosse grave (area del faro anteriore destro), ma la complessità del design della Miura, e il cofano in alluminio, rappresentavano sfida troppo grande per meccanici non acconci e avvezzi. “Papà, ho rotto la Miura”. “Amore, stai bene? Non preoccuparti. Prenderemo un’altra macchina, made in Usa”. Dopo questo verosimile dialogo telefonico, e come fossimo in una perfetta sceneggiatura, ecco dunque che la Miura viene acquistata (meglio non conoscere l’importo, il nostro cuore potrebbe risentirne) da un certo Steve Beckman, patron della carrozzeria San Mateo. Siamo nel 1977, e lui avrebbe voluto riportarla allo stato originale. Ma tecnicamente troppo complicato, e così le intenzioni restarono virtuali (esisteva questa parola all’epoca?) e l’auto rimase a prendere polvere in un capannone a Benicia, a nord di San Francisco. Incredibile a dirsi, ma lì è rimasta per 42 anni. Intatta, tra immondizia e silenzio.
Cambiano le generazioni, ma nessuno sa come prendere il Toro per corna. Cosa farne. E la Miura continua a stare lì, in attesa. Fino al 2019. Il destino, stufo, voleva che quei cavalli rivedessero la luce del sole. E, complici dei lavori edili che richiedevano spazio e dunque sgombero di certe ‘anticaglie’, ecco che un anonimo salvatore contatta giusto in tempo un esperto di auto da collezione, mister Jeff Meier, che già possedeva una Miura del ‘67. Il quale, venuto a conoscenza della povera Miura parzialmente smontata, si precipita come fosse Usain Bolt (O Marcell Jacobs?) a visionarla, e prova emozioni e sentimenti come Harrison Ford in Indiana Jones.
Iniziano delle trattative talmente estenuanti che solo le consuetudini americane possono spiegare, ma l’acquisto viene completato. Insieme a un delicato intervento conservativo che ha riportato l’auto alla lamiera viva (era bianca) con l’interno originale in azzurro scuro con tanto di Corano degli Anni Settanta sui sedili. Il contachilometri era fermo a 16mila miglia (25.750 chilometri). Ora è pronta, motore rombante, per un viaggio Coast to coast d’altri tempi. Due milioncini di dollari saranno ben spesi, non siete d’accordo?
Fonte www.repubblica.it