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Quando gli optional ci facevano felici

BOLOGNA – Fateci caso, oggi gli optional su un automobile non sono il di più, bensì quello che manca. Chi progetta la vettura la pensa tutta insieme poi il costruttore, per renderla più accessibile e a un prezzo più basso, la mette in vendita senza quello che servirà per completarla. Si entra in concessionaria basandosi sul listino e se ne esce quasi sempre ingobbiti perché quello che dà più gusto è (quasi) sempre da pagare a parte. Si comincia con la tinta, che a parte un paio di pastelli, è sempre a caro prezzo e si arriva a tutta la polpa: le telecamere, i sensori, gli aiuti alla guida, le ruote più grandi, il collegamento allo smartphone e chi più ne ha più ne mette. Alla fine del percorso, comperando tutto, si arriva alla vettura perfetta che però è uguale a quella senza niente o quasi costando comunque un bel tot in più.
Bei tempi, allora, quando uno la sua automobile se la personalizzava davvero. Chi più chi meno, tutti entravano nel negozio di autoaccessori e se ne uscivano con qualche cosa di personale, spesso anche di orribile, per rendere la propria auto qualcosa su misura, fosse anche soltanto di gusto.
Robaccia, va detto, almeno in molti casi, ma irrinunciabile. Il catalogo era sterminato per star dietro alle esigenze e ancor più spesso alle mode e i venditori dietro il bancone erano abilissimi a proporti il peggio non appena individuavano i tuoi gusti.
I più giovani inorridiranno, e fanno bene, però ci si sbizzarriva passando dalle cose più utili a quelle più futili perché l’automobile era una vetrina dove esporre la propria merce. Lo specchietto laterale, quando ancora non era obbligatorio, era un vezzo dei guidatori più accorti. Li vedevi da lontano quando salivano in macchina e col braccio fuori dal finestrino cominciavano a sistemarlo perché prima qualche passante, bastardo dentro, lo aveva immancabilmente spostato in alto o in basso.

L’autoradio era invece sinonimo di ricchezza. Quelle più semplici avevano i comandi a rotella, quelle più sofisticate i tasti preselezionati, quelle più costose erano estraibili per evitare i furti. Che poi la gente se le portava il cinema e al ristorante e le dimenticava lì. Meglio perse che rubate, si dirà.
I padri di famiglia erano quasi sempre le vittime, perché se all’epoca la vettura da comperare se la sceglievano rigorosamente loro, erano però quelli che si salivano sopra che pretendevano di arredarla. Con risultati spesso patetici, bisognerebbe aggiungere, perché i bambini pretendevano il pupazzetto che pendeva dallo specchietto retrovisore interno, i ragazzetti ci volevano la coda di tigre che si poteva avere al distributore di benzina e faceva tanto Indiana Jones ante litteram, le madri la targhetta con Sant’Ambrogio e la scritta papà non correre. E poi ci voleva il cane sul lunotto posteriore con la testa che ciondolava e toglieva tutta la visuale. Chi sopraggiungeva non poteva non farsi scappare un «Ma guarda quel cretino lì davanti…» e prontamente qualcuno a bordo gli ribatteva «Attento, perché ce l’abbiamo anche noi!»
Quelli che si credevano più cool non rinunciavano al coprivolante in pelle, con quello in pelo di tigre che era il più pacchiano, i pignoli invece puntavano tutto sui tappetini in gomma che ostentavano al mondo quando lavavano la loro vettura.
Poi c’erano i fanatici dell’estetica che si potevano sbizzarrire sui copri-cerchioni per farli sembrare più elaborati, quasi di lega e quelli che aggiungevano finte cromature, puntualmente di plastica verniciata,  per non parlare dei pomelli della leva del cambio che erano di ogni foggia e di ogni materiale possibile.
E gli sportivi? C’era tanto pane per i loro denti. Si cominciava con i ganci ferma cofano in gomma e si continuava con le prolunghe delle levette sul cruscotto perché chi guidava disteso come Jim Clark potesse arrivare ai comandi. E i copri sedili, che andavano tanto di moda, erano con i salsicciotti laterali per contenere il pilota nelle curve a più alta velocità, mentre il parasole adesivo messo in alto sul cristallo anteriore sapeva tanto di Monza e di coraggio. Tutto era molto finto e molto inutile, ma dava gusto perché anche se molti avevano le stesse cose, niente era mai proprio uguale e ognuno, non importa in che parcheggio, riconosceva subito la sua auto e gli si apriva il cuore.
La mania delle decalcomanie faceva poi il resto: la squadra del cuore, quelle degli accessori come sui bolidi da corsa.
Oggi che buttiamo giù le statue potremmo buttare giù anche questi inutili orpelli figli degli anni del boom economico, ma bisogna aver vissuto quegli anni per capire quanto significato c’era dietro a ogni scelta, le peggiori comprese: l’auto condensava non solo la guida ma anche la vita, alla faccia di oggi dove ci vuole un’app per ritrovare il proprio mezzo perso nei cortili dell’Ikea.
 

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