Si chiamano “Bardamù” come il protagonista di “Viaggio al termine della notte”, capolavoro della letteratura del Nocecento firmato da Celine, e sono due cittadini del mondo. Ginaski Wop (batteria, percussioni, sampler, voce) e Alfonso Tramontana (pianoforte, tastiere, sintetizzatore e voce) sono anche fratelli e dal 2000 creano la loro musica facendosi influenzare da ogni luogo nel quale vivono. Prima Cuba, poi Barcellona e Madrid, ora a metà tra Roma e New York, dove si esibiscono nei jazz club più importanti. E dove scrivono e suonano i loro dischi, li producono e registrano nel loro studio mobile per le vie della città. Il loro nuovo disco è un inno alla vita declinata in suoni e colori e allo stesso tempo “battezza” un nuovo stile musicale, che poi è il titolo dell’album, lo “Stray Bop”.
Complimenti, il vostro disco è un’esplosione di colori e musiche del mondo. Qual è il progetto che lo ha ispirato?
Ginaski: “Grazie mille! Il progetto viene da lontano… facciamo musica insieme sin dal 1991 e da sempre abbiamo. Suonato musica jazz. Gli anni ’90 hanno offerto una magnifica proposta per quel che concerne la cultura hip hop in Italia e noi ne siamo rimasti folgorati… ci è parsa da subito una forma di new jazz e dall’epoca abbiamo iniziato a costruire questo percorso sonoro e letterario”.
Alfonso: “Forse la risposta è già presente nella tua domanda. Il progetto è nato grazie ai colori, alle musiche che ci hanno contaminato durante le nostre esperienze. Nasce in modo spontaneo e naturale, uno dei brani del disco, ad esempio, è stato composto alla fine di un concerto a New York, quando, ancora sul palco abbiamo improvvisato una ritmica su degli “appoggi” di piano”.
“Stray Bop” è il titolo dell’album e del singolo: lo intendete anche come un nuovo tipo di musica? Se sì, quale? Potete spiegarmela?
Alfonso: “Lo Stray Bop nasce dal fatto che il Rap, a nostro avviso, è la naturale prosecuzione del jazz. Fare Stray Bop non vuol dire mettere insieme in una sorta di collage delle rime su un ritmo funkeggiante come spesso si ascolta anche in trasmissioni della tv generalista nelle quali tale commistione fra i due stili spesso suona come un mediocre manierismo: lo Stray bop tratta i due linguaggi come se fossero un unico codice espressivo per cui più che un collage diventa un decoupage. Gli accenti del rap evocano quelli di uno strumento a fiato che improvvisa su un pezzo be-bop e le tematiche devono essere Bop proprio come i Boopers della letteratura americana quali Jack Kerouac”.
Ginaski: “È complicato ormai pensare di inventare qualcosa di totalmente “nuovo”, intendo dire che andando a ritroso tanti grandi della musica e delle arti in generale hanno sperimentato e fuso vari linguaggi… pensa a Miles Davis, o qui in Italia Fred Buscaglione. Ritengo che il nostro progetto esca dalle solite logiche in quanto non è un album di jazz con commistioni rap né tantomeno il contrario. È un album di jazz dove la cultura hip hop viene vissuta come naturale evoluzione dell’universo jazz. Inoltre tutto quel che ascolti nel disco è suonato dal vivo con strumenti tradizionali. Stray Bop aldilà dell’aspetto musicale è un modo di essere, un modo di vivere la vita: randagio, girovago, a tratti disperato e a tratti curioso di conoscere cosa accadrà domani”.
Vi definite “cittadini del mondo” e vivete tra Roma e New York. Come queste due città microcosmo vi influenzano? È più difficile fare musica live a Roma o a New York?
Alfonso: “Non saprei fare una classifica delle difficoltà. Ogni luogo presenta le sue criticità. Probabilmente a New York c’è più attenzione per ciò che è nuovo, per le nuove forme musicali, non si è troppo cristallizzati ed ancorati a progetti che nascono e spesso muoiono in spettacoli televisivi, la musica viene ancora cercata nei club, nei posti dove si suona. Brooklyn, Harlem sono continua fonte di ispirazione. Roma è una città per la quale nutro sentimenti molto intensi: ci vivo da 10 anni e mi ha ospitato nella maniera in cui sa fare Roma: a volta incantandoti con le sue settimane di giugno e spesso ignorandoti perché tanto la sua eternità non ha bisogno di te…”.
La parola “Jazz” è capace di evocare un mondo, una cultura, un modo di essere di intendere la vita. Mi date la vostra definizione di jazz? Vale la pena oggi inseguirlo?
Alfonso: “Il jazz è uno stile di vita. Non è soltanto un genere musicale. In tal senso si può parlare di letteratura jazz, di cinema jazz e le radici di questo stile riportano ad una corrente artistica e culturale che parlava delle problematiche della strada, a volte degli ultimi, che veniva suonata nei night club e nei bordelli. Il processo creativo del jazz che è l’improvvisazione implica una sorta di composizione musicale estemporanea ed un dialogo quasi un amplesso che avviene nell’interplay dei componenti della band. E’ quindi sicuramente utile studiarne i pilastri grammaticali, le principali scale e la maniera in cui i grandi lo hanno suonato ma non è, secondo noi. Bello snaturarla e farla diventare una musica da conservatorio o, peggio ancora, una carnevalata in costume nei locali da Bourlesque”.
Ginaski: “In realtà è un termine sul quale si dibatte ancora molto…. Tralasciando l’Italia in cui ci si ostina a pronunciarlo ancora in modo sbagliato (JEZZ)! Pare che il verbo to-jazz indicasse in slang far sesso in modo molto carnale e selvaggio. Mi piace pensare che questa carnalità non vada perduta…. Nonostante in Italia si sia fatto di tutto per rendere questa cultura robetta borghese”.