Parliamo di uno dei protagonisti della prima fase del governo gialloverde: Paolo Savona. Un anno fa la sua nomina a ministro dell’Economia sembrava decisiva per le sorti del Paese.
Conosco Paolo Savona da 30 anni, quando nel 1993 è stato ministro del governo Ciampi. Sardo, orgoglioso, un vero professore che mi ha trasmesso la sensazione di essere un uomo amareggiato per essere considerato un personaggio politico di serie B. Il governo gialloverde lo ha trasformato. È diventato un militante sovranista, la star del sovranismo. Lo spread si è impennato ogni volta che ha parlato di Piano B per uscire dall’Euro, di minibot e della Banca centrale che deve garantire il debito pubblico italiano. Alla fine è riuscito a ritagliarsi il suo spazio al centro della scena politica italiana, come sperava, ma in negativo.
E poi all’Economia c’è finito Giovanni Tria. Non ha preso bene le rivelazione che hai pubblicato nel libro.
Sì, ha minacciato di querelarmi perché ho rivelato che per ben due volte ha tentato di dimettersi senza riuscirci. E talvolta, se sentiva dire che Di Maio stava arrivando al ministero dell’Economia, cercava di nascondersi o di non farsi trovare in ufficio. Ho risposto a Tria che il mio è stato puro diritto di cronaca.
Leggendo i retroscena del tuo libro si ha l’impressione che parti dello Stato abbiano lavorato per limitare gli eccessi dei sovranisti.
I populisti li chiamano in modo dispregiativo il deep state, io invece considero i vari direttori generali e capi di gabinetto il meglio della burocrazia italiana. Daniele Franco della Ragioneria di Stato, Salvatore Rossi della Banca d’Italia, o Fabrizio Pagani. Nomi poco conosciuti ma che garantiscono la continuità di fatto dei governi italiani. Il politico adatto li sa valorizzare al meglio. È come andare a cavallo, se il cavallo pensa che hai paura non ti aiuta, se sai cosa fare ti fa galoppare molto lontano.
Perché non ci sono riusciti?
Perché il governo gialloverde è stato un garbuglio di neofiti confusionari e di sovranisti anti-euro. Non è un caso che Lega e M5s abbiano cercato di politicizzare istituzioni indipendenti. Il presidente dell’Anpal e dell’Inps sono stati scelti dai Cinque Stelle, la Lega ha nominato il capo dell’Istat e spedito Paolo Savona alla Consob. Questo è solo uno dei tanti modi con cui hanno ferito l’Italia, ben venga un nuovo governo, qualsiasi governo, che ci faccia respirare.
Ma i Cinque Stelle sono ancora al governo.
Sì, ma i conti pubblici e i posti chiave per l’Europa sono nelle mani di persone europeiste del Pd. La nomina di Roberto Gualtieri all’Economia e Paolo Gentiloni alla Commissione europea sono la garanzia che avremo un governo moderato, ragionevole, collaborativo. Nonostante i 5 stelle.
E Conte.
Fino a ieri diceva che le parole “populismo” e “sovranismo” erano dentro la Costituzione. Difendeva Salvini e i suoi provvedimenti. Oggi invece dice che questo governo è europeista. Spero che il suo trasformismo lo ancori all’europeismo. Però non prendiamoci in giro: questo governo è nato per due motivi, sterilizzare l’Iva ed eleggere il successore di Mattarella. La partita del Quirinale è la più importante, ma prima bisogna mettere a posto i conti.
E come si fa? Ieri alla Camera il presidente del Consiglio ha elencato i punti del suo programma ma è stato un po’ vago.
Nel libro ho analizzato la prima legge di bilancio del governo gialloverde. Conte aveva programmato una cifra ridicola per gli investimenti pubblici. E invece ha permesso a Lega e M5S di spendere i miliardi a disposizione per politiche redistributive pasticciate e malfatte come quota 100 e reddito di cittadinanza. Due fallimenti che non hanno avuto effetti positivi sulla crescita.
Però i soldi li troverebbe in deficit, come aveva promesso Salvini.
Si può anche fare deficit, ma non i 50 miliardi di debito promessi da Salvini che avrebbero creato un buco nei conti. La sua flat tax regressiva avrebbe favorito solo i ricchi. Nel libro propongo una possibile ricetta: premiare la qualità degli investimenti. Scatenano rapidamente un fattore moltiplicatore, creano temporaneamente occupazione e tamponano la crisi occupazionale e hanno effetto sui consumi. Quota 100 e reddito invece non hanno fatto crescere il Pil.
Quindi più autostrade, ponti, tunnel e ferrovie?
Non solo. Servono investimenti digitali. È vergognoso che l’Italia non abbia la banda larga in tutto il territorio nazionale. Se anche Sicilia, Calabria, Campania e il resto del Sud avessero una connessione internet potente in tutti i piccoli comuni si creerebbe più occupazione. Per esempio nel settore dell’e-commerce e lavori che si possono fare da casa. L’ultimo politico a capire questo, sono sincero, è stato Matteo Renzi.
In Europa forse ci sono le condizioni per dare più flessibilità. La futura presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha chiesto una riforma dell’eurozona. Cosa ne pensa della successore di Draghi?
Conosco entrambi, ma sono due persone molto diverse. Draghi è il banchiere centrale dei banchieri centrali: l’uomo più fine del mondo finanziario. Sofisticato, intelligente, geniale, modesto e umile. Lagarde è un politico di centrodestra francese, braccio destro di Sarkozy a cui ha scritto una lettera di fedeltà. Condannata per negligenza nello scandalo Adidas-Tapie che ha causato una perdita di svariati milioni di fondi pubblici. Quando era presidente del Fondo monetario internazionale nel 2011 su consiglio di Sarkozy era disposta a dare il prestito di 80 miliardi di euro all’Italia pur di fare fuori Berlusconi. Tutto questo per dire che non è estranea alle controversie, però negli anni si è costruita una reputazione di grande leader carismatica. Certo è una politica. E questo è un pregio è un difetto. Non sembra una buona idea avere un politico francese a capo della Bce ma forse serve proprio una figura del genere per spingere alla riforma del fiscal compact. Lo scopriremo solo vivendo.
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