Che sia stato il “ponte del risveglio” per come una parte d’Italia ha festeggiato il 25 aprile è ancora presto per esserne sicuri. Sono infatti troppi e ripetitivi i segnali di segno opposto. Soltanto le cronache degli ultimi giorni ci hanno regalato insulti razzisti allo stadio, inneggiamenti a Mussolini, profanazioni di lapidi e monumenti alla Resistenza, il compiacimento diffuso per la legge sulla legittima difesa (nella versione demagogica di Salvini, la libertà di sparare al ladro) e infine il divieto per atleti africani di partecipare alla maratona di Trieste, poi precipitosamente tramutato in “provocazione”: si volevano “smascherare” oscuri traffici sugli atleti.
Proprio a Trieste si dice “peggio il tacon del buso”. Anche il modello di comunicazione è ripetitivo. La si spara grossa, si vede l’effetto che fa e poi, se è il caso, si corregge il tiro. Conteggiando gli applausi. Preoccupano, più ancora degli episodi, il clima di indifferenza, l’assenza di un’indignazione collettiva, la banalizzazione di atteggiamenti xenofobi, lo sdoganamento diseducativo di un linguaggio che comincia con “la pacchia è finita” e invade la rete, il bar, la piazza, la scuola e che è anche all’origine di tanti episodi di bullismo e discriminazione.
Sarebbe però sbagliato, o quantomeno riduttivo, attribuire lo sdoganamento al manuale propagandistico imposto al Paese dal ministro degli interni (per il quale non celebrare la Resistenza significa non partecipare a un “derby” fra rossi e neri). C’è molto di più se andiamo a rileggere con occhi di oggi le lezioni di Gobetti, Flaiano, Bobbio, di tanti intellettuali che seppero cogliere la propensione degli italiani al conformismo, i guasti che possono produrre individualismo e disprezzo per le regole, l’incapacità di “fare sistema”, il rovesciamento strumentale dei concetti di nazione e giustizia sociale, la messa in ridicolo di principi e regole della scienza, della medicina, dell’economia; la dimensione storicamente minoritaria di una cultura autenticamente liberale nella destra e di una cultura autenticamente progressista nella sinistra.
La storia dell’ultimo ventennio non l’ha fatta Salvini, ma un terribile concorso di fattori politici e culturali che ha prodotto il quadro politico e culturale di oggi. Casomai si può constatare l’oggettiva abilità di Salvini e Di Maio di cavalcare l’onda e capitalizzare consenso, contando anche su un sistema mediatico più propenso ad amplificare il successo che a utilizzare critica e denuncia costruttiva. È ancora troppo limitato lo smascheramento di dilettantismo, bufale, errori e pericoli che sta correndo il Paese.
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