La differenza tra «Il movimento è tutto, l’obiettivo è niente» (Eduard Bernstein) e «Tanto peggio, tanto meglio» (Anonimo Qualunquista) è la differenza che passa tra il riformismo e il suo contrario. Da qualche tempo, e con tutta la qualità delle firme che vi scrivono, Linkiesta ha deciso che l’Italia debba essere spinta rumorosamente verso il baratro.
Lega e Fratelli d’Italia sono quelli che sono, il Movimento Cinque Stelle anche. E il Partito democratico si sarebbe consegnato al “populismo”, qualunque cosa voglia dire. Certo: ci sarebbe “il governo dei Beatles”, come da sobria suggestione dell’amico Christian Rocca. Ovvero il dream team Bonino-Italia Viva-Calenda con qualche innesto in purezza scelto fior da fiore tra quelli buoni del Pd.
E se non fosse per quei cazzari d’italiani, che tanto si sa che non meritano la democrazia e finiscono sempre per scegliere il meglio per sé e il peggio per il proprio paese, a Palazzo Chigi avremmo già da un pezzo il riformismo realizzato nella sua forma più cristallina e smagliante. Nel frattempo, mentre attendiamo che gli italiani si accorgano di avere sbagliato e che i Beatles salgano dal 4 al 51 per cento, che tutto sprofondi in un fragoroso falò.
In effetti il cataclisma nazionale sarebbe uno spettacolo impressionante. Ma da guardare ben riparati al cinema. Perché quei quindici mesi di governo Salvini ce li ricordiamo tutti. L’isolamento in Europa e nel mondo, l’umiliazione delle istituzioni, la fabbrica della paura, la glorificazione del razzismo, l’incombere quotidiano del tracollo, i danni materiali alla ricchezza del paese e tutto quanto ha composto la trama di uno dei periodi più bui della storia repubblicana.
La scelta del Partito democratico di puntare sul governo con i Cinque Stelle nasce da qui: da un’idea di politica che non si riduce a testimonianza onanistica di sé ma che prova a mettere le mani nel fango delle cose reali, da un’idea di responsabilità che ha sempre animato la parte migliore della sinistra italiana. E nell’agosto scorso, alla luce dell’esperienza reale del salvinismo al potere, la domanda che si è posto il Pd è stata una sola: «Per quanto ci riguarda, vogliamo contribuire ad affidare le chiavi del paese alla Lega per altri cinque anni o vogliamo provare a raddrizzare la barca?».
C’era tra noi chi sosteneva che infliggere all’Italia un quinquennio di leghismo in purezza sarebbe stato un prezzo accettabile per riprovarci al prossimo giro. C’erano (e ci sono) gli entusiasti dell’alleanza con il Movimento Cinque Stelle. Ma c’era soprattutto chi guardava all’ipotesi di un governo con Di Maio come si guarda a ogni passaggio del proprio impegno di rappresentanza: e dunque domandandosi in che modo i principi per cui si sceglie di fare politica si sarebbero incrociati con la capacità di incidere sulla realtà. Che è poi l’adattamento ai nostri più umili tempi delle parole di Bernstein e del metodo – pragmatico, faticoso, fallace – che ha sempre perseguito ogni riformismo.
Per un giornale non è indispensabile avere piena contezza del lavoro parlamentare o di governo. Ma assumere come fa Linkiesta che il Pd si sia trasformato in una succursale del Movimento Cinque Stelle, e che non vi sia alcuna sostanziale differenza tra il governo Lega-M5S e il governo Pd-M5S, significa perseguire con tenacia l’obiettivo di adattare i fatti alle proprie opinioni.
Per carità: si tratta di un obiettivo tradizionalmente diffuso nel giornalismo militante italiano, un tempo incarnato nobilmente dalla stampa di partito (quando ancora ne esisteva una) e oggi più tristemente rappresentato dai giornali di Belpietro o di Travaglio. E sarebbe facile fare qui l’elenco di tutto quanto è cambiato nell’asse politico italiano nei dieci mesi del governo Conte bis grazie all’impegno del Partito democratico: dal posizionamento geopolitico a quello europeo, dalle politiche economiche a quelle per il lavoro, dalla gestione del problema migratorio al rispetto verso le istituzioni e molto altro ancora di quanto è agli atti di chiunque voglia misurare le proprie opinioni con i fatti della vicenda nazionale.
Quel che colpisce è che il metodo Belpietro-Travaglio sia promosso da Linkiesta in nome del “riformismo”. Perché è davvero una piccola malattia italiana rappresentare il riformismo come una vocazione minoritaria, cullarsi nell’idea del “meno siamo, meglio stiamo” e soprattutto gratificarsi nella fantasia che quel che accade concretamente al paese sia del tutto secondario rispetto all’ebrezza dello sventolare una bandiera solitaria. Che poi talvolta la storia ti costringe davvero a restare solo, come ci insegnano coloro che dissero No al fascismo o allo stalinismo.
Ma davvero, cari amici de Linkiesta, possiamo confondere l’eroismo di quei No con la pinzillacchera del “Governo dei Beatles”? Davvero pensate che la risposta per l’Italia alla gigantesca minaccia del sovranismo possa venire dalla mitomania furbetta di un Calenda (che un giorno si paragona a Ferruccio Parri e l’altro a Winston Churchill, attendendo che arrivi il turno di Napoleone, ma sempre sparando contro il partito che lo ha eletto eurodeputato), dal doloroso fallimento dell’ultimo Matteo Renzi (che ha disperso una leadership politica straordinaria in un progetto sbagliato tanto nelle premesse quanto nei risultati) o in quella parte di Più Europa che si riconosce in Emma Bonino?
Davvero non vedete come gli italiani siano meno sprovveduti di quanto si pensi – come ci dicono tutti i sondaggi – e dunque già in grado di distinguere chi offre una vera alternativa alla destra autoritaria da chi invece coltiva solo e soltanto un progetto personale? E davvero non credete che la sfida per il riformismo passi anche oggi e anche per l’Italia – come è sempre accaduto in tutti i paesi europei dove la sinistra ha contato qualcosa – dal consolidare grandi tende aperte e plurali piuttosto che dal piantare piccole aiuole?
Immagino già una delle vostre risposte, che l’altro leggo ogni giorno sul vostro sito: «Ma i Cinque Stelle sono il male e dobbiamo starne lontani». Per quanto riguarda i riformisti del Pd, i Cinque Stelle sono e resteranno alternativi al Partito Democratico. E alle prossime elezioni gli italiani potranno scegliere con chiarezza tra noi e loro, sulla base di un sistema elettorale di impianto proporzionale con effetti maggioritari e alla luce di quanto saremo riusciti a fare in questi mesi per restituire ossigeno al paese.
Oggi sarebbe certamente bello governare in splendida solitudine, con un monocolore Pd in stile Rolling Stones, se non fosse per la nota testardaggine dei fatti (in questo caso i numeri parlamentari, che il Governo dei Beatles può permettersi di trascurare). Ma la verità è che i Cinque Stelle sono tutto e il contrario di tutto, come sta concretamente dimostrando quest’esperienza di governo.
E dentro le loro fila convivono gli entusiasti del regime di Pechino con coloro che si schierano con i ragazzi di Hong Kong, i nostalgici della Lira con i fan di Ursula Von Der Leyen, i teorici della repressione anti-migranti con chi vorrebbe arruolarsi in una Organizzazione non governativa.
Un calderone che nelle intenzioni di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio avrebbe dovuto diventare un vittorioso “partito piglia-tutto” e che nella più complicata realtà della politica italiana si è acconciato a essere sostegno prima del sovranismo autoritario a trazione leghista e poi del riformismo europeista espresso dal Pd. E che verosimilmente è destinato a rappresentare stabilmente una fetta dell’elettorato antipolitico.
La domanda che dobbiamo farci è dove vogliamo portare quell’elettorato? Regalarlo a Salvini e Meloni come truppa di complemento in un disegno di isolamento autoritario del paese, o portarlo a sostenere il nostro disegno per l’Italia?
Gramsci avrebbe parlato della possibilità di esercitare egemonia. Noi possiamo accontentarci della sfida di orientare questa coalizione (e l’elettorato M5S) nella direzione più giusta per l’Italia (e per il riformismo). È una sfida faticosa, ben poco eroica, molto rischiosa. Ma si tratta della rischiosa fatica della politica. Che forse è meno scoppiettante del gran falò salviniano a cui ci condurrebbe il «tanto peggio, tanto meglio». Ma certamente è quello che serve all’Italia.
Andrea Romano ci scrive che il Pd è alternativo al M5S (ma l’avrà detto anche a Zingaretti?)