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Applausi al Conte bis, ma Renzi è una mina vagante per Zingaretti

La trattativa che ha portato alla nascita del governo giallo-rosso, per Nicola Zingaretti, è stata estenuante. Dapprima ha dovuto fronteggiare il suo partito che, dopo la clamorosa apertura di Matteo Renzi, si è schierato compattamente contro il suo obiettivo di andare subito al voto. Ha ingoiato il “patto di legislatura” evocato da Goffredo Bettini e, nel giro di un paio di settimane, ha visto cadere tutti i paletti che si era prefissato, dalla conferma di Giuseppe Conte alla presidenza del Consiglio alla rinuncia al vicepremier unico del Pd, passando per l’imposizione della votazione online su Rousseau da parte del Movimento 5 Stelle.

Gli va riconosciuto, però, il merito di aver sostanzialmente messo all’angolo Luigi Di Maio e di essere riuscito a tenere unito il Partito Democratico, cosa più unica che rara. Chiuso questo fronte, però, rischia di riaprirsene un altro. E porta il nome proprio del senatore fiorentino, cui molti compagni di partito e addetti ai lavori assegnano la palma di vero vincitore di questo passaggio politico. Che Matteo Renzi potesse rappresentare una mina vagante per questa nuova maggioranza (e quindi per la tenuta del governo) lo si dice dal primo giorno in cui sono stati aperti i tavoli di confronto tra Pd e Cinque Stelle. Ma il rischio è che lo spauracchio possa prendere corpo prima del previsto.

L’obiettivo di Renzi è chiaro: tornare a ricoprire un ruolo da protagonista attivo nella vita politica italiana. Il percorso che ha individuato è, ormai, altrettanto chiaro: completare una transizione che lo porti ad abbandonare il Pd ed intraprendere una nuova strada. Una strada che lo porti ad occupare lo spazio vuoto lasciato al centro dello schieramento, in cui andrebbero a confluire, oltre che i suoi fedelissimi, anche quell’ala di Forza Italia che non ha alcuna intenzione di farsi incubare dal sovranismo estremista di Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Ma è una strada irta di difficoltà e dalle conseguenze potenzialmente esplosive. Il piano che Renzi sta vagliando insieme ai suoi pasdaran è quello di dare vita ad un gruppo parlamentare autonomo alla Camera e confluire, insieme a un drappello di senatori dem, nel gruppo misto di Palazzo Madama. L’obiettivo è duplice: da una parte offrire una sponda ai forzisti in cerca di nuovi lidi (come Mara Carfagna) e dall’altra spostare più verso il centro l’asse del nuovo governo, a cui comunque non dovrebbe far mancare la fiducia. Un’operazione che, nella testa di Renzi, non porterebbe ad una diaspora immediata dei riformisti in fuga dal Pd. Molti parlamentari che fanno riferimento a lui resterebbero al loro posto, con l’obiettivo di presidiare anche il partito.

Fantapolitica? Tutt’altro. Il piano è abbastanza definito. Ma Renzi deve fare i conti con vari grattacapi. Il primo è stato esplicitato di recente dal vicesegretario del Pd Andrea Orlando: “Chi esce, esce. Non esistono giochi che consentano di restare con un piede in due scarpe”. Un avvertimento che cela la grande preoccupazione con cui al Nazareno stanno osservando le mosse di Renzi. E qui torniamo all’ossessione di Zingaretti: l’unità del partito, invocata dalla sera stessa in cui è stato incoronato leader del Pd. Il segretario è disposto a tutto pur di non spaccare il fronte democratico. Per questo nessuno, per ora, ha smentito le ricostruzioni giornalistiche che parlano dell’offerta già fatta recapitare all’ex segretario per sostituire Paolo Gentiloni nel ruolo di presidente del partito.

E per questo, lo stesso Zingaretti – che ha da sempre in mente il Pd come architrave di uno schieramento chiaramente alternativo alla destra in un’ottica sostanzialmente bipolare – guarda con interesse a ciò che succederà il prossimo 20 ottobre, quando Renzi riunirà il “suo” popolo alla Leopolda. “La situazione politica è destinata a cambiare – racconta una fonte vicina all’ex premier – se le garanzie richieste dal Pd in cambio della riduzione del numero dei parlamentari promessa al M5s dovessero portare alla definizione di un assetto esplicitamente proporzionale, allora l’idea di creare subito nuovi gruppi parlamentari sarebbe presa davvero in considerazione. Anche perché non possiamo ignorare le dinamiche che si stanno innescando alla nostra destra”.

Non a caso, ancora Orlando ha tenuto a specificare che “non è detto che le garanzie richieste siano compatibili solo con un sistema proporzionale”. I timori principali di Zingaretti sono due. Il primo, come detto, riguarda la sopravvivenza stessa del Pd. Un Renzi in uscita potrebbe catalizzare l’interesse di un’ampia fetta di dirigenti, militanti ed elettori dem. Il secondo riguarda la tenuta stessa del governo giallo-rosso, costruito su un equilibrio millimetrico tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle.

“Pensare che la creazione di nuovi gruppi parlamentari possa non avere conseguenze sulla tenuta della maggioranza è semplicemente folle”, spiega una fonte del Nazareno. “La fatica fatta perché questo progetto prendesse forma verrebbe vanificata in tempo zero. Se dovesse davvero avvenire questa cosa, sarebbero giustificati tutti i timori di un Renzi pronto a staccare la spina al governo”. Significherebbe, di fatto, confermare che la sua mossa che ha sbloccato l’impasse nel mese d’agosto mirava solamente a prendere un po’ di tempo per organizzare la scissione.

Per questo Zingaretti – che ancor più che della vita del governo è deciso a preservare l’esistenza e la solidità del Pd – farà tutto ciò che è in suo potere per evitare un destino che sembra scritto da mesi, ma che fatica a prendere corpo. Il segretario dem ha già dimostrato di non essere uno che si arrocca sulle sue posizioni, tutt’altro. E Renzi potrebbe tornare a pensare di scalare il Pd da dentro. Un’altra volta.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/09/11/governo-pd-cinque-stelle-renzi-partito/43504/

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