Il “decennio breve” è cominciato il 12 novembre 2011, con le dimissioni di Silvio Berlusconi e la fine del berlusconismo, qualunque cosa e sia stato, una specie di quasi-premierato sul piano politico-istituzionale e un “sultanato” su quello privato (con gli eccessi torquemadisti di parte della magistratura inquirente e, dall’altro lato, la colpevole – non tanto sul piano etico-giudiziario, quanto su quello estetico e più propriamente politico – realizzazione della promessa della rivoluzione liberale in una rivoluzione libertina pro domo sua).
Altri riconducono al berlusconismo la “trashizzazione” dei contenuti televisivi, vista come diabolica strategia psicopolitica per inebetire i tele-elettori dalle cabine di regia Mediaset, tesi suggestiva nel suo esser tanto distopica quanto grossolana: non foss’altro, la rivoluzione digitale ha certificato che quella al trash e al frivolo è una predisposizione antropologica dell’uomo-massa, e parecchi secoli prima lo certificò, giusto per dirne una, la teoria e la prassi del panem et circenses.
La trasfigurazione, anche in seguito a suggestioni internazionali, dell’antiberlusconismo in uno spersonalizzato, generalista e giacobino antielitismo (anti-istituzionalismo, euroscetticismo, democraticismo, ecc) ha accompagnato la transizione dalla Seconda Repubblica alla Prima duepuntozero. In Italia, scenario prevalente di questa crono-analisi, queste pulsioni si sono prima incanalate e semi-strutturate nel magma protofascista del grillismo, così permeato da pragmatismo anti-ideologico, antiparlamentarismo ed eticismo, futurismo e al contempo decrescitismo, da poter esser a pieno titolo considerato, per l’appunto, un déjà vu della fase sansepolcrista del primo fascismo. Poi, anche in questo caso in sintonia col trend internazionale, si sono e si stanno inesorabilmente inserendo nel processo di ri-nazionalizzazione delle masse.
L’insediamento del governo guidato da Mario Monti, il 16 novembre del 2011, ha inaugurato una prassi che appena un lustro dopo sarebbe stata rielaborata e capitalizzata da Matteo Salvini – parliamo appunto del “metodo Salvini”: ci si spaccia per antagonisti del governo dai banchi del governo medesimo, o comunque dagli scranni della maggioranza. Provvedimenti lacrime e sangue improcrastinabili o comunque estranei al programma politico di un azionista della maggioranza vengono addebitati a singoli capri espiatori (“tecnici”: si tratti della Fornero o di Tria) o agli altri azionisti: siamo all’apogeo della deresponsabilizzazione politica.
Nel 2016 venne bocciata, assieme al ddl Boschi, la stagione riformista renziana: il combinato disposto Italicum & riforma costituzionale avrebbe “maggioritarizzato” il sistema politico-istituzionale responsabilizzando, per l’appunto, il partito o la coalizione vincente. Però, suggestionata dalla mobilitazione di un gigantesco, eterogeneo fronte per il “No”, la maggioranza degli elettori optò per lo status quo. (Non che non ci fossero anche ragioni e preoccupazioni legittime, beninteso).
Ad ogni modo, il migliore “legato” della parabola renziana – avviatasi il 22 febbraio 2014, dopo il gol a porta vuota sbagliato da Pier Luigi Bersani alle politiche del 2013 e un anno di decantazione lettiana; conclusasi il 12 dicembre 2016, dopo il suddetto No degli elettori – è l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, il 31 gennaio 2015, dopo (l’inedita e orse sul piano della costituzione materiale, patologica) ri-elezione di Giorgio Napolitano nel 2013: tanto quest’ultimo, col suo interventismo quasi scalfariano, quanto lo stesso Mattarella, esercitando pressioni e ingerenze intense ma – democristianamente, nella migliore accezione del termine – subliminali, avrebbero secondo taluni determinato una semi-presidenzializzazione de facto della nostra forma di governo.
Sempre nel 2013, le dimissioni (“patologiche” anch’esse) di Papa Benedetto XVI spianarono la strada alla populistizzazione perfino del soglio pontificio, sul quale s’è accomodato un Papa perfettamente in linea coi dettami del tempo che fa, eccezion fatta per il sentimento giustizialista: Papa Francesco ha sempre condannato la concezione punitivista del diritto penale che va per la maggiore.
Tutto questo avviene ai piani alti. Sotto si assiste alla ri-nazionalizzazione delle masse, ennesimo effetto collaterale della crisi dei subprime del 2008 e, dalle nostre parti, della crisi dell’euro del 2011, oltreché della globalizzazione realizzatasi perlopiù a spese dei ceti medi: si è innescata, nei tardi anni zero, una forma di neo-proletarizzazione della piccola borghesia – da qui il passo alla retrotopia (il ritorno a un passato idealizzato, magari fatto di Dio, patria e famiglia) è stato brevissimo.
La non correlazione tra situazione e azione di classe è tipica, per l’appunto, delle masse piccolo-borghesi radicalizzatesi, aduse a scambiare, nel mercato politico, il loro voto con la promessa di soddisfazioni perlopiù simboliche se non perfino controproducenti– securitarismo, protezionismo, criminalizzazione delle minoranze, antisemitismo ecc. Siamo di fronte all’ennesima prova empirica della non scientificità del materialismo marxiano e della teoria (post-marxista) dell’homo oeconomicus.
Così, hanno trionfato Brexit e Trump oltremanica e oltreoceano. E il salvinismo dalle nostre parti: narrazioni tanto più efficaci quanto più de-ideologizzate. Salvini prospetta «la rivoluzione del buonsenso» e infantilizza il proprio elettorato con la spettacolarizzazione di proposte e gesti pre-politici – mangiare, bere, ballare, mettere in galera «chi ruba». Il perbenismo, come dire?, da zia col santino di Padre Pio in camera da letto, è anch’esso un elemento (apparentemente) a-ideologico essenziale della narrazione etno-populista: la politicizzazione/paganizzazione del Natale posta in essere da Salvini, con crocifissi e presepi sconsacrati e degradati a talismani, è finalizzata proprio alla conquista dell’italiano medio pronto a indossare l’armatura a difesa delle «nostre tradizioni» (e così Gesù bambino è diventato il nuovo Alberto da Giussano), mentre l’idealizzazione del poliziotto-eroe «che rischia la vita per una paga da fame» viene spinta ben oltre le soglie di un pur minimo garantismo, senza – va da sé – dimenticare di puntualizzare che «la droga fa male», altro dogma della mentalità da comunità pedemontana da cui il salvinismo pesca i suoi slogan.
Specularmente, le élite progressiste – anche quelle italiane – hanno lasciato praterie alle destre sovraniste, ripescando dall’armamentario del massimalismo ricette oggi improponibili (patrimoniali, nazionalizzazioni ecc) o abbandonando la working class per inseguire istanze post-materialiste (così battezzate da Luca Ricolfi: cambiamento climatico, identità di genere, femminismo). Il radicalismo di destra si è alimentato di – e per certi versi alimenta sua volta, in una specie di opposta radicalizzazione – una forma di radicalismo di sinistra dedito alla criminalizzazione del maschio-bianco-etero e a una ri-progettazione costruttivista del linguaggio che finisce inevitabilmente per mutilare la libertà d’espressione e, più in profondità, la creatività, sacrificate ambedue sull’altare del politicamente corretto (il contraltare non può che esser rappresentato da oltranzisti del politicamente scorretto come Trump e Salvini).
In ambedue i casi ci troviamo di fronte a pulsioni antiliberali: i liberal ambiscono a ridimensionare il perimetro della libertà d’epsressione “foucaultianamente”; i neo-nazionalisti effettivamente, con gli strumenti di cui sempre si sono serviti i reazionari (e cioè le autorità di pubblica sicurezza e i burocrati zelanti e apolitici descritti da Hannah Arendt, così la DIGOS butta già striscioni e qualcuno al provveditorato sospende una professoressa per una presentazione power point che darebbe fastidio a Salvini).
Il web, nel frattempo, ha disatteso la promessa di democratizzazione e internazionalizzazione con la quale aveva avuto genesi, fungendo al contrario da infrastruttura tramite la quale corporazioni, Stati autoritari e portabandiera del sovranismo profilano e manipolano i consumatori/elettori in uno scenario di anno in anno sempre più distopico.
Tornando in Italia, il nostro “decennio breve” si conclude il 4 marzo del 2018: dopo il governo di decompressione di Paolo Gentiloni, quella tornata elettorale ha certificato la stabilizzazione di una forma di consociativismo post-politico che vede, per adesso, il M5S posizionarsi nel ruolo pivotale che fu della Democrazia Cristiana («contro-DC», così Ilvo Diamanti ha definito il M5S: tanto più l’una era solida e seriosa e preparata, quanto più l’altro è liquido e demenziale e impreparato…).
E, lo si è visto e lo si è detto e ri-detto, sono appunto tornati i due forni di andreottiana memoria. Forse, dopo la crisi del Papeete nell’agosto di quest’anno, anch’esso potenziale termine anticipato della fine del decennio, il forno della sinistra filo-grillina verrà definitivamente assorbito dalla Casaleggio, e così il centro verrà occupato dai “moderati” renziani e post-berlusconiani e una destra salvinizzata giganteggerà per un po’ all’interno del nostro spettro politico-partitico.
Al momento è in fieri una riforma costituzionale finalizzata alla minimizzazione del Parlamento, da bilanciare, nelle intenzioni del legislatore, con una proporzionalizzazione integrale o quasi del sistema elettorale.
Si è già detto che questa crono-analisi è incentrata perlopiù sull’Italia, perciò tanto gli ultimi sanguinosissimi colpi di coda dell’integralismo islamico quanto l’assestamento di nuovi equilibri internazionali che, in seguito alle politiche isolazioniste prima obamiane e poi trumpiane, vedono la Russia e la Cina perseguire la loro ascesa, non vi figurano: a riprova della mediocrità della nostra classe politica, non sono in agenda o vi entrano solo occasionalmente ai fini di bassa speculazione politica.
In linea con uno spirito del tempo così schizofrenico, per il decennio che verrà non ci resta che augurarci che Dio e il cuore immacolato di Maria ci assistano e ci difendano dagli invasori (!), pur premurandoci di specificare che con ciò non si vuole ledere la sensibilità di atei, musulmani o chicchessia.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/12/27/anni-10-cosa-successo/44881/