È stato il battesimo formale di Nicola Zingaretti l’assemblea nazionale del Pd chiamata a ratificare la scelta ai gazebo. Gli oltre mille delegati eletti con il congresso o dai parlamentari hanno incoronato l’uomo uscito trionfalmente dalle primarie con il 66% completando la squadra di vertice con la scelta di presidente e tesoriere del partito più la direzione (un centinaio di membri in tutto).
Naturalmente all’Hotel Ergife era molto attesa la relazione del segretario. «Prima di tutto dobbiamo cambiare tutti noi, occorre un partito diverso, più aperto, più inclusivo, realmente democratico, in grado di essere percepito come amico di chi parla con noi». Un partito che «sia capace di fare autocritica e che guardi alla sofferenza» della società. Accanto al tavolo della presidenza il podio essenziale per gli oratori in plexiglass e alle spalle lo slogan «La parola alla democrazia» e l’insegna del Pd sopra quella del Partito socialista europeo. «Dobbiamo rimettere al centro la persona umana», dice Zingaretti citando l’esempio dei giovani ecologisti. Non manca la critica agli errori fatti e da non ripetere. «Tornino a essere i nostri circoli i luoghi dove gli altri fanno associazionismo. No a filiere di potere che restringono il nostro rapporto con la realtà sociale del Paese. Troppo spesso alla ricchezza positiva del confronto tra territori si è sostituita la freddezza dei terminali correntizi». Inoltre «negli ultimi vent’anni non abbiamo percepito che un becero liberismo ha ripreso le redini dello sviluppo: ci vuole più riformismo per affrontare il futuro, per migliorare la vita delle persone, di questo ne abbiamo un immenso bisogno e lo faremo, accidenti se lo faremo». Ed è «indispensabile rimettere al centro della nostra politica la giustizia sociale», dal momento che «la lotta alla povertà é la condizione per stare meglio tutti».
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Per la seconda e la terza carica i nomi scelta dal leader erano quelli di Paolo Gentiloni e Luigi Zanda, non senza mal di pancia di alcune componenti alla vigilia circa il metodo seguito. Larghissimo il consenso ottenuto dall’ex premier alla presidenza, nessun voto contrario e 86 gli astenuti. Si trattava di uno dei passaggi utili a chiarire il grado di compattezza interna intorno alla nuova guida che nessuno metteva più in discussione dopo il plebiscito popolare di Zingaretti. Dalla sua Gentiloni ha avuto non solo la maggioranza ma anche le due componenti che hanno sostenuto la candidatura di Maurizio Martina, gli ex renziani doc di Luca Lotti e Lorenzo Guerini e i martiniani strettamente intesi. Non il deputato (ed ex candidato alla segreteria) Roberto Giachetti per il quale «non votare Gentiloni presidente non è un atto ostile, è la libera dialettica di un partito. Gentiloni, che è come un fratello per me, non è stato terzo nella campagna per le primarie, ha appoggiato Zingaretti. Se fosse stato “terzo” non avrei avuto problemi a votarlo». Maria Elena Boschi ha annunciato invece che avrebbe votato Gentiloni alla presidenza pur avendo appoggiato Roberto Giachetti nella corsa («per me vale l’impegno del segretario che non ci sarà un ritorno al passato»). In ogni caso «saremo una minoranza leale a differenza di quelle precedenti perché non spareremo sulla dirigenza. Resteremo in minoranza, nessun incarico in segreteria», tiene a rimarcare Giachetti.
Anna Ascani e Debora Serracchiani saranno le vice nominate da Gentiloni. Le due mozioni della minoranza alle primarie trovano così spazio di rappresentanza nell’ufficio di presidenza. Nel corso dell’assemblea sono stati anche proclamati dal presidente della commissione congresso Gianni Dal Moro i risultati definitivi del processo culminato nelle primarie con l’elezione di Nicola Zingaretti. Quest’ultimo ha ottenuto come detto il 66% dei consensi, contro il 22% di Maurizio Martina e il 12% di Giachetti. In ragione di ciò l’assemblea nazionale è composta da 549 uomini e 451 donne per una totale di mille delegati, dei quali 653 (65,30%) per Zingaretti, 228 per Martina (22,8%), 119 per Giachetti (11,9%).
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