Le Sardine devono rimanere le Sardine, quelle della notte di piazza Maggiore quando apparvero senza preavviso a gettare luce – disse poi Francesco Guccini – oscurando il Capitano in odore di citofono. La successiva “nazionalizzazione” del movimento andò abbastanza bene, piazza dopo piazza fino a riempire San Giovanni, e i ragazzi ressero discretamente anche alla tremenda prova della mediatizzazione del fenomeno. Mattia Santori con i suoi quattro amici finirono con l’essere decisivi per la vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna. Ottimo e abbondante.
Adesso invece sta succedendo qualcosa di strano. Si tratta solo di avvisaglie, niente di tragico, e però… Però il rischio di una involuzione si è intravisto domenica scorsa a Roma, in quella Roma dove tutto si esalta e si deprime, spesso fantastica culla e ancora più spesso altare funereo. Attente, Sardine: per parafrasare il vostro slogan, Roma lega. Non nel senso del salvinismo, anzi, non è una città leghista né mai lo sarà. Ma nel senso che c’è qualcosa di politicamente vecchio che nella Capitale ti avviluppa e ti snatura, se non sei bravo. Ti lega, appunto.
Il fatto è che sulla manifestazione di Santi Apostoli non sembrava aleggiare l’aria fresca di piazza Maggiore ma quella sciroccosa di una roba già sentita in centinaia di appuntamenti di una “nuova sinistra” vecchia di decenni, i compagni del Centro sociale, la compagna della Casa delle donne, il gruppetto antirazzista, il collettivo tal dei tali, tutti spezzoni di vita sociale in sé anche apprezzabili guidato da vecchi compagni noti alle cronache politiche di quando eravamo giovani persino noi.
Nulla contro Daria Cossutta, figlia di Armando, già parlamentare bertinottiana e poi inevitabilmente cossuttiana dopo la rottura fra i due, nulla contro il coraggioso animatore del Baobab antirazzista Andrea Costa, semmai qualcosa da dire ci sarebbe giusto su “Tarzan” ex consigliere comunale che occupava le case ma lasciamo stare. Per carità, uno va in piazza e ci trova di tutto. Né ha senso la solita tiritera del kitipaka tirata fuori stavolta dal più leghista dei grillini, Stefano Buffagni («Le sardine hanno un palco costosissimo e una regia che nemmeno Bono degli U2. La domanda è: chi paga?»), uno che farebbe bene a lavorare con più costrutto al ministero dello Sviluppo economico, invece di imitare Maurizio Gasparri.
Il problema vero è che le Sardine non devono diventare un pezzo della nuova sinistra, o come la volete chiamare, anzi non devono diventare un pezzo della politica-politica in senso lato. O sono in un certo senso “sopra” la politica o finiranno peggio dei Girotondi. A finire sotto l’ala dei “politici” si resta senza ossigeno. Ci si rinsecchisce.
La forza evocativa e intrinsecamente “politica” di questo nuovo movimento di massa è infatti altrove. È nella capacità di contestare il linguaggio violento che esala dal salvinismo come da un certo uso dei social, è nell’abilità di schivare le insidie del politicismo di marpioni coi capelli bianchi, è nel sapere portare un serio discorso culturale nel dibattito pubblico, nella società, laddove cioè si consuma la vera battaglia politica. Nella società, sì, non a Palazzo Chigi. Dove l’interlocuzione con Conte o chi per lui rischia di essere una cosa inutile o grottesca.
Non sta a Mattia Santori risolvere il problema della prescrizione o delle tasse. Tanto meno vestirsi da compagno di strada di vecchi ceti politici. Guai dunque a smarrirsi nei meandri della politique politicienne romana e nei labirinti delle cordate più o meno occulte, delle sigle e siglette guidate da leader mancati e venerabili maestri alla ricerca di tempi andati. Meglio restare le belle Sardine di piazza Maggiore che diventare i nuovi professionisti della politica.
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