La crisi del coronavirus avrà un effetto pesante e duraturo sulle nostre vite, anche dal punto di vista economico, ma per prenderne coscienza dobbiamo anzitutto riconoscere il fatto che in Italia, da questo punto di vista, siamo ancora in piena fase della negazione. E da ben prima dell’epidemia, venuta ad aggravare di colpo tutti i problemi che da almeno sei mesi eravamo già fortemente impegnati a ignorare. Il risveglio da questo prolungato sonnambulismo rischia di essere dunque ancora più traumatico. Ragion per cui, a rischio di passare per antipatici, sarebbe bene che economisti e politici con la testa sulle spalle facessero la loro parte, come l’hanno fatta nelle scorse settimane tanti virologi ingiustamente accusati di allarmismo e protagonismo, mentre cercavano semplicemente di metterci sull’avviso in tempo.
Diciamoci la verità. Con il passaggio dal primo al secondo governo Conte, il dibattito sullo stato dei conti pubblici e dell’economia italiana nel suo complesso è cambiato radicalmente. A confrontare le dichiarazioni degli stessi osservatori, analisti e protagonisti politici – in particolare di quelli passati nel frattempo dall’opposizione alla maggioranza – sembrerebbero riferirsi a due paesi diversi: l’uno praticamente sull’orlo della bancarotta, capace solo di dilapidare in modo dissennato le poche risorse disponibili e di accumulare nuovo debito; l’altro praticamente seduto su una montagna di miliardi, intento a discutere solo del modo migliore in cui spenderli.
E davvero il relativo calo dello spread dovuto alla famosa «credibilità» del nuovo governo (ma forse sarebbe più onesto dire: all’incredibilità dei personaggi che dal governo sono stati fortunatamente allontanati) non basta a giustificare un simile ribaltamento della situazione. Un ribaltamento tanto più difficile da spiegare considerando che il nuovo governo non ha cambiato una virgola delle principali scelte di politica economica del governo precedente (che anzi ha riconfermato in blocco: dal reddito di cittadinanza a quota cento), come del resto ha fatto anche per ogni altro genere di provvedimento (tipo i decreti sicurezza, che a questo punto, possiamo metterci il cuore in pace, rimarranno qui a farci compagnia ben oltre la fine della quarantena).
Già pienamente immersi in questo stato psicologico di negazione della realtà – sulla simmetria tra rimozione dei dati economici e rimozione dei dati politici e di consenso ci soffermeremo un’altra volta – siamo entrati nella crisi del coronavirus, e a quel punto il gioco al rialzo non ha incontrato più limiti, come testimoniato anche da tutto l’assurdo dibattito seguito alla spaventosa conferenza stampa di Christine Lagarde, e prima ancora dal modo in cui l’intera comunità nazionale si è unita come un sol uomo per sfondare la porta aperta della famigerata «flessibilità» europea. Flessibilità che significa, né più né meno, possibilità di fare più deficit (e quindi più debito). Come se il problema, di fronte al collasso economico che si annuncia in tutta Europa, e che sarà tanto più duro per l’Italia, fosse ottenere dalla Commissione Ue il permesso di sforare parametri che già oggi nessuno considera più minimamente attuali, e che tutti ci hanno già detto in tutte le lingue di sforare serenamente.
Ben diverso sarebbe stato il discorso se avessimo chiesto, ad esempio, misure di garanzia comune per i debiti pubblici e massicci investimenti europei, cioè comuni, dove i paesi economicamente più forti mettono di più. Macché. Tutto quello che chiediamo, pure con l’aria di chi batte i pugni sul tavolo, è il permesso di far fare un altro giro alla corda che abbiamo già al collo. Ma se prima di questa crisi eravamo già agli ultimissimi posti per crescita in Europa, quando usciremo dalla quarantena, dopo aver fermato tutto il fermabile e dopo avere scontato gli effetti a catena prodotti dall’emergenza (per fare solo l’esempio più banale, sulla stagione turistica), con un pil ormai ventimila leghe sotto i mari, a quanto arriveranno i famosi rapporti deficit/pil e debito/pil? Cosa ce ne importa di avere o non avere il permesso dell’Europa: giunti a quel punto, anche un’eventuale procedura d’infrazione sarebbe l’ultimo dei nostri problemi.
Non si tratta di essere di destra o di sinistra, europeisti o antieuropeisti, a favore dell’austerità o invece di politiche keynesiane. Si tratta semplicemente di avere il senso della misura, uscendo dall’ubriacatura populista che in questi mesi ha mandato all’aria il nostro dibattito pubblico. Si tratta di capire che se le torte al cioccolato facessero dimagrire non esisterebbero i dietologi, e per la stessa ragione, se per rilanciare un’economia a crescita zero e con un debito gigantesco bastasse dire spendiamo di più, non esisterebbero né gli economisti né le elezioni, perché non ci sarebbe bisogno né degli uni né delle altre. Il problema è che sembriamo tutti prigionieri di una sorta di comma 22: per farci sentire davvero in Europa, come chiedono a gran voce tutti i populisti (di maggioranza e opposizione), dovremmo prima sapere cosa chiedere; ma per sapere cosa chiedere, dovremmo prima smettere di raccontarci balle (cioè di rincorrere i populisti).
C’è da augurarsi che la gravità della crisi sanitaria ci renda consapevoli di quanto sia rischioso continuare a rimuovere i problemi, ignorando i segnali di allarme, per guadagnare facili quanto effimeri consensi nel breve periodo. Ma a giudicare dal tenore del dibattito, il picco della pandemia populista sembra ancora lontano.
https://www.linkiesta.it/it/article/2020/03/14/debito-pubblico-italia-coronavirus-lagarde-europa-euro-populismo/45845/