L’ora del taglio per 230 deputati e 115 senatori è giunta. Il disegno di legge di riforma costituzionale è arrivato alla sua quarta votazione a Montecitorio, l’ultima prima dell’approvazione. Tuttavia, sono ancora molte le polemiche all’interno della maggioranza. Secondo i partiti della maggioranza, Camere più snelle dovranno accompagnarsi a una serie di cambiamenti istituzionali inevitabili, primo fra tutti la legge elettorale. Modifiche essenziali, su cui il premier Giuseppe Conte ha fondato l’azione del suo nuovo esecutivo. Su queste si giocherà il destino del governo giallorosso.
«Il voto in Aula sarà decisivo per la nostra democrazia, è bene che le forze politiche non lo sottovalutino», dichiara il costituzionalista Francesco Clementi, docente di diritto pubblico comparato dell’Università di Perugia. La sua opinione è chiara: «Sarà pure giusto, ma la riduzione dei parlamentari, così come è strutturata, è sbagliata nelle forme e nei modi. Servirà un accordo politico tra i partiti della maggioranza per risolvere i problemi che verrebbe a creare». Questioni soprattutto «di tipo costituzionale, ma non solo. Infatti, il taglio del numero di parlamentari impone l’abbassamento dei quorum per le elezioni delle cariche, come il presidente della Repubblica e una necessaria riforma degli articoli 56 e 57 della Costituzione, che riportano il numero di deputati e senatori». La Carta non sarebbe l’unica a essere stravolta. «Sarebbe inevitabile affrontare anche problemi più strettamente politici. Si porrebbe come essenziale soprattutto una nuova legge elettorale che garantisca rappresentanza e governabilità». Due le possibili ipotesi. «Un sistema proporzionale con soglie di sbarramento alte, intorno al 5%, darebbe la possibilità di non frammentare il parlamento e di rappresentare equamente il voto popolare». L’alternativa? «Un voto maggioritario a doppio turno con ballottaggio a livello nazionale lascerebbe agli elettori un primo voto d’opinione, dove i cittadini votano il partito che più li rappresenta, e un secondo di razionalità, che formi una chiara maggioranza che possa governare». Anche i regolamenti parlamentari necessiterebbero di una modifica. «Un numero minore di parlamentari porterebbe ad aggiornare al ribasso sia il numero di componenti che il numero totale di commissioni. E poi ridurre le commissioni vuol dire ridurre necessariamente anche i ministeri, a cui sono legati».
Secondo il professor Clementi, il pericolo principale di un simile taglio sarebbe uno. «La crisi della rappresentatività. Insieme alla legge elettorale attuale, il Rosatellum, il taglio parlamentare porterebbe i seggi a “pesare” di più». Essendo il Senato eletto su base regionale, «molte regioni rischiano di essere sottorappresentate o di non avere alcun membro della minoranza, perché a essere eletti sarebbero solo i membri del primo e del secondo partito». Per questo una riforma che porti l’elezione in Senato su base circoscrizionale, come alla Camera, o su base pluriregionale aiuterebbe molto a mantenere in equilibrio il sistema. Senza pesi e contrappesi, c’è il rischio di sbilanciamento. Lo racconta la storia politica italiana. «Nel 1919, quando fu introdotta una legge proporzionale senza sbarramento, in Parlamento entrarono forze antisistema che portarono la democrazia italiana verso un modello illiberale». Servirà fare attenzione dunque, perché «non garantire rappresentatività e governabilità al sistema rischia di portare gli elettori verso la sempre più stringente necessità di un uomo forte, capace di decidere». Una richiesta che mal si adatta all’idea di democrazia: questo PD e Cinque Stelle non lo devono dimenticare. «Tagliare i parlamentari e non cambiare il sistema consegnerebbe il paese a una campagna elettorale sanguinosa e a una vittoria inevitabile delle forze antisistema».
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