La lettura dei giornali si è fatta sempre più angosciante, non solo per le notizie che vengono dalla cronaca. Già stremati dal continuo e infruttuoso tentativo di capirci qualcosa tra virus, curve epidemiologiche e modelli stocastici, siamo investiti da una gran quantità di informazioni contraddittorie anche su quello che stanno facendo, e pensando, negli altri paesi. Prima, negli Stati Uniti e praticamente in tutto il resto d’Europa, saltano fuori fior di luminari a dire che non c’è niente da fare, fessi noi a chiudere tutto, perché bisogna al contrario favorire i contagi, tra i soggetti più forti, così da produrre un’immunità di gregge per tutti gli altri; immunità che però, replicano gli esperti italiani, non è affatto detto si produca, e soprattutto non si sa a quale prezzo (di vite umane).
Dopodiché sembra che molti di quei paesi oggi stiano cambiando idea, ma non si capisce fino a che punto (la Francia, ad esempio, non ha voluto nemmeno rinviare le amministrative), mentre chi non vuole saperne dell’approccio nazi-darwinista ripete che il contenimento può funzionare, come ha funzionato in Cina, ma si sente subito rispondere che la Cina è mille cieli sopra un continente, che la regione focolaio dell’Hubei conta all’incirca la stessa popolazione dell’Italia intera, e poi che loro potevano chiudere una regione perché avevano tutto il resto del paese a lavorare, e poi ancora che quello è un regime autoritario, mica una democrazia. Ed è proprio a questo punto della discussione, quando ogni speranza sembra abbandonarci, che qualcuno tira fuori l’ultima carta: la Corea del Sud.
Paese democratico, grande un terzo dell’Italia e con una storia assai complicata alle spalle (da quel poco che ne ho letto, direi che la Corea è una specie di Polonia asiatica: posta a metà strada tra Cina e Giappone, è stata terra di conquista per gran parte della sua esistenza). Ebbene, pur essendo partita subito in cima alla lista dei paesi con più contagi, la Corea del Sud sembra oggi avere adottato le politiche più efficaci contro l’epidemia. Come ormai saprete tutti, lo ha fatto grazie a un efficientissimo sistema di tracciamento e di tempestivo isolamento dei contagiati, con un sacco di dettagli più complicati che altri sapranno sicuramente spiegarvi meglio (compresi i non insignificanti problemi legali e costituzionali che si porrebbero in Italia).
Ma immagino che anche voi vi sarete chiesti come sia possibile che mentre Stati Uniti e Gran Bretagna sembravano governati da Scemo e Più Scemo, il Giappone faceva quel gran casino con la Diamond princess e mezza Europa pareva in preda al delirio, ad affrontare la situazione nel modo più efficace fosse la Corea del sud. E forse dovreste anche chiedervi come mai un paese così piccolo, povero di risorse naturali e con la storia sopra ricordata sia oggi una potenza economica tra le più avanzate del mondo, capace di competere al massimo livello sui mercati internazionali, compreso quello della musica pop (con un gruppo, i Bts, che sbiglietta poco meno di Elton John, e senza cantare in inglese, ma in coreano). La risposta a queste domande sta in una sola parola: nunchi (leggi nunci), ben illustrata dal delizioso libro della scrittrice Euny Hong («Il potere del nunchi», Newton Compton).
Ebbene, se dobbiamo importare il modello coreano per combattere il coronavirus, forse faremmo bene a considerare il contesto sociale e culturale che lo ha reso possibile, a cominciare da quella parolina magica, che fondamentalmente significa capacità di prendere le misure a colpo d’occhio (agli altri, al contesto, alla situazione). Qualcosa di simile all’intelligenza emotiva, inserita però in un sistema di valori e norme di comportamento in cui si mescolano confucianesimo e buddhismo, ma anche l’esperienza storica di un paese abituato da tempo immemore all’idea di doversi sempre guardare intorno e capire rapidamente l’aria che tira.
Piccolo esempio di educazione coreana: quando da bambina l’autrice protestò con i genitori che non era sua intenzione offendere il cuginetto, il padre le rispose che questa, semmai, era un’aggravante. Lezione che fa inorridire noi lettori occidentali sul piano etico, sbagliando, perché non è un ammonimento etico, ma un consiglio pratico (se crescendo non imparerai a capire quando il tuo comportamento è offensivo per gli altri e quando non lo è, da grande avrai grossi problemi).
L’esempio che più mi ha colpito è però quello di un video diventato virale qualche tempo fa, in cui si vedono gli automobilisti che all’imbocco di una galleria, dinanzi a un incidente, immediatamente cominciano ad accostare il più possibile verso l’esterno della carreggiata, così da creare un corridoio centrale per l’ambulanza, come guidati da una forza invisibile (avete capito quale). E ho pensato a quante volte a Roma ho assistito allo spettacolo contrario, vedendo automobilisti e motociclisti fiondarsi dietro un’ambulanza in corsa per sfruttarne la scia (o al centro dell’incrocio in cui si sta formando l’ingorgo che un minuto dopo diverrà inestricabile). A conferma del fatto che in un paese in cui il nunchi non è il principio base dell’educazione impartita a tutti i bambini, ahinoi, sarà molto difficile ottenere simili risultati.
Intendiamoci. Il coronavirus è un’immane tragedia che non possiamo assolutamente sottovalutare e che dobbiamo prendere tremendamente sul serio. Ciò non toglie che possiamo al tempo stesso sforzarci di cavare da questo immenso male quanto più possibile di bene, per noi e per gli altri. In parte, per fortuna, sta già accadendo: stiamo imparando a fare le file, a non invadere lo spazio del prossimo e a cercare di non intralciarlo – tutte attitudini molto nuncesche – e più in generale stiamo imparando quanto ciascuno di noi al tempo stesso paghi il prezzo e goda i benefici del comportamento altrui. Conquiste preziose, non solo per il futuro, ma anche per la sfida che abbiamo davanti adesso, se vogliamo davvero avere qualche speranza di riuscire ad applicare anche noi il famoso modello coreano.
https://www.linkiesta.it/it/article/2020/03/16/coronavirus-modello-corea-del-sud-nunchi/45865/