Le cifre forse non governano il mondo, dubitava Wolfgang Goethe, «ma sono certo che ci mostrano se è governato bene o male». A tre anni dalla vittoria al ballottaggio della sindaca di Roma Virginia Raggi bisogna guardare ai numeri per provare a tracciare un bilancio. E occorre confrontare le linee programmatiche emanate al momento dell’insediamento con quanto è stato finora realizzato, l’unica via per misurare lo scarto tra le promesse e la realtà. Con una premessa d’obbligo, che però non può diventare un eterno alibi: la Giunta pentastellata ha ereditato una città al collasso, ferita da anni di gestione dissennata, da municipalizzate sull’orlo del default, dall’inchiesta su Mafia Capitale e dal tentativo franato del sindaco Pd Ignazio Marino di rimettere in carreggiata la Capitale.
«La città in movimento» era il titolo del paragrafo delle linee programmatiche dedicato al trasporto pubblico locale, che Raggi intendeva rilanciare disincentivando «l’utilizzo del mezzo privato» anche per centrare l’obiettivo di «allineare la nostra città ai parametri delle principali capitali europee». La storia è andata molto diversamente. Atac, la municipalizzata dei trasporti, chiudeva il 2016 con una perdita di 212,7 milioni, 11.652 dipendenti con un costo del lavoro di 538,8 milioni e ricavi da vendita di titoli pari a 264,8 milioni. Il servizio era stato pari a 149,4 milioni vetture chilometro. Il parco mezzi contava 2.082 bus (età media 11,6 anni), 164 tram, 102 veicoli metro (13,3 anni) e 72 del servizio ferroviario regionale (35,4 anni). Gli investimenti erano a quota 24,5 milioni (contro i 33,8 milioni del 2015). Il debito monstre ammontava a 1,35 miliardi.
Per evitare il fallimento a settembre 2017 la Giunta decideva di chiedere al tribunale fallimentare l’accesso alla procedura di concordato preventivo in continuità, poi accordato definitivamente nel luglio 2018. A fine 2017 la perdita di esercizio si riduceva a 120,2 milioni, i dipendenti a 11.411 con un costo del lavoro pari a 537,4 milioni e ricavi da bigliettazione e abbonamenti stabili a quota 264,8 milioni. Gli investimenti però calavano ancora a 23,6 milioni. Ma era soprattutto il servizio a mostrare la corda, sceso a 144 milioni vetture chilometro. Gli autobus si riducevano a 1.911, i veicoli metro a 96, quelli delle ferrovie regionali a 62.
È proprio il parco mezzi, vetusto e piagato da guasti continui (10 i bus andati a fuoco da inizio anno, 20 quelli nel 2018, 22 nel 2017; tre le stazioni della metro A chiuse nel 2019 per problemi alle scale mobili), il tallone d’Achille dell’intero sistema. Per il 2018 sono disponibili soltanto i dati della semestrale, salutata con enfasi da Raggi e dall’assessora alla Mobilità Linda Meleo perché per la prima volta nella sua storia si è chiusa con un risultato netto positivo: +5,2 milioni. I ricavi sono aumentati, ma la produzione ha continuato a diminuire raggiungendo in media l’87% del programmato. Colpa soprattutto del trasporto di superficie, bus e tram. Quello che mette a dura prova la continuità e il rispetto del contratto di servizio, ma soprattutto del piano di concordato, che prevede invece un aumento della produzione chilometrica fino al 2021, facendo balenare il rischio di penali milionarie.
Lo sforzo per comprare nuovi mezzi finora non è risultato efficace. Sono 227 gli autobus acquistati sulla piattaforma Consip e costruiti in Turchia ma non ancora arrivati, 38 quelli noleggiati dalla ditta Cialone (su un pacchetto di 108 complessivi), 60 i minibus elettrici riattivati. Un bando per comprare altri 240 bus ibridi da far circolare dalla metà del 2020 è stato pubblicato a marzo: scadeva a maggio ma per evitare che andasse deserto è stato prorogato a giugno. Erano stati noleggiati anche 70 bus usati da Israele e datati 2008, ma poi si è scoperto che sono euro 5 dunque fuorilegge per l’Ue e ora l’azienda sta valutando il da farsi. Pasticci su pasticci. Meleo ha rivendicato di aver indetto 108 gare di cui 62 già concluse, le più consistenti delle quali per la manutenzione di circa 700 bus. Eppure è appena scoppiato il caso climatizzazioni: circa 200 guasti all’aria condizionata al giorno (il 15% del totale delle vetture), che fanno perdere altre corse.
Raggi, nel post su Facebook in cui si è difesa dal duro editoriale di mercoledì scorso del direttore del Messaggero che l’ha definita «incapace», ha chiesto provocatoriamente: «Perché tutti hanno taciuto quando Atac con “parentopoli” assumeva gli “amici degli amici” indebitandosi per oltre un miliardo di euro?». Ma in realtà del colpo di mano dell’ex sindaco Alemanno, che nel 2009 fece assumere in un colpo solo 844 persone portando i dipendenti a quasi 13mila unità, si è scritto e dibattuto moltissimo. Tanto che gli anni dal 2009 al 2013 sono finiti sotto la lente degli ispettori della Ragioneria generale dello Stato e la Corte dei conti è intervenuta a più riprese.
È andata persino peggio sul fronte rifiuti. Qui gli annunci erano stati roboanti: al Consiglio straordinario convocato il 10 agosto 2016, la prima di una lunga serie di emergenze, la sindaca si era scagliata contro i fallimenti dell’Ama, la municipalizzata ereditata con 7.800 dipendenti e un debito di 600 milioni, promettendo entro il successivo mese di dicembre «un progetto impiantistico, funzionale al programma del M5S verso l’obiettivo rifiuti zero». La differenziata era inchiodata al 41%, l’obiettivo fissato dal piano rifiuti presentato ad aprile 2017 (nel frattempo si era dimessa tra polemiche e inchieste l’assessora Paola Muraro ed era subentrata Pinuccia Montanari, che ha lasciato anche lei lo scorso febbraio) fissava l’asticella al 70% entro il 2021. Un’utopia: nel 2018 a Roma la differenziata è scesa sotto il 44% contro il 44,3% del 2017. Il nuovo contratto di servizio con Ama punta al 50% quest’anno (nel primo quadrimestre era al 45,4%) e al 55% nel 2020.
Ma la situazione dell’immondizia diventa ogni giorno più drammatica. Il “no” del M5S a inceneritori e termovalorizzatori si è sovrapposto a una crisi impiantistica enorme. Il contratto prevede soltanto due nuovi impianti di compostaggio, per i quali è stata chiesta autorizzazione alla Regione. Ma il problema è il trattamento dell’indifferenziata, circa 2.600 tonnellate al giorno. Dei due Tmb di proprietà dell’Ama, Salario e Rocca Cencia, che fino al 2016 trattavano il 50% dell’indifferenziata prodotta in città, è rimasto attivo solo quello di Rocca Cencia, che per giunta a fine maggio si è fermato per un guasto. Per il Salario, devastato da un incendio l’11 dicembre 2018 (un altro incendio ha riguardato Rocca Cencia a marzo), Raggi ha appena chiesto alla Regione Lazio il ritiro dell’Autorizzazione integrata ambientale. Gli altri due Tmb di Malagrotta usati da Ama sono di proprietà di Colari, la società del ras dei rifiuti Manlio Cerroni che possedeva anche la discarica chiusa nel 2013 e che è stata commissariata e ora è gestita da un amministratore giudizario: l’ultimo contratto firmato ad aprile prevede che non chiudano i battenti, ma che accolgano sempre meno rifiuti.
Il risultato, ben sintetizzato il 12 giugno in audizione alla Camera dal direttore generale di Arpa Lazio, Marco Lupo, è che oggi circa «1 milione di tonnellate di rifiuti (su 1,7 milioni totali, ndr) escono dalla città metropolitana di Roma, diretti a impianti di trattamento o smaltimento in base alla tipologia di rifiuto». E nei primi quattro mesi del 2019 hanno saturato tra il 40 e il 70% della capacità dei tre Tmb nelle province di Viterbo, Latina e Frosinone. La paralisi è totale.
Non agevola il buio pesto che regna sui conti di Ama. Colpa dello psicodramma intorno al bilancio 2017 ancora da chiudere insieme a quello del 2018 (che ha visto dimettersi l’assessora Montanari e il Cda guidato da Lorenzo Bagnacani, che ha presentato un esposto contro Raggi accusata di aver fatto pressioni perché chiudesse in passivo). Il nuovo Cda si è appena insediato: è il sesto cambio ai vertici in soli tre anni. «Il bilancio 2017 dovrebbe essere pronto prima del 30 giugno», è la promessa. La perdita è data quasi per scontata. E gli interrogativi sul destino della società si sprecano, visto che secondo la legge Madia nel caso si registrino passivi per tre anni di seguito il Comune sarebbe costretto a rimettere a gara i servizi che gestisce in proprio e, se necessario, avviare la procedura di fallimento.
Ama è in buona compagnia. Roma Metropolitane non approva un bilancio dal 2014, Farmacap dal 2016, travolta da inchieste e due diligence. L’ultimo bilancio consolidato di Roma Capitale (riferito al 2017) si è chiuso con una perdita di circa 36 milioni di euro e un patrimonio netto di circa 9 miliardi, ma i revisori del Campidoglio lo hanno bocciato sostenendo che «non rappresenta in modo veritiero e corretto la reale consistenza economica patrimoniale e finanziaria dell’intero gruppo amministrazione pubblica di Roma Capitale». Anche perché è sono state escluse Roma Metropolitane, Centrale del Latte e Farmacap.
L’assessore al Bilancio Gianni Lemmetti, chiamato a Roma dalla Giunta Nogarin di Livorno dopo l’addio di Andrea Mazzillo a sua volta subentrato a Marcello Minenna, si espone pochissimo. Ma si è battuto per l’approvazione dell’emendamento “salva Roma” al decreto crescita che prevede l’accollo statale del maxi bond 2004 del Campidoglio da 1,4 miliardi (3,6 con gli interessi), in scadenza il 21 gennaio 2048, con l’obiettivo di chiudere la gestione commissariale dal 2021 ed evitare così la temuta crisi di liquidità che avrebbe messo in ginocchio la città. Sempre Lemmetti si è impegnato per portare gli investimenti di Roma Capitale a 1,8 miliardi nel triennio 2019-2021 con la variazione di bilancio da poco approvata dall’assemblea capitolina. «Roma riprende a investire», ha esultato ieri Raggi. «È un messaggio concreto alle forze produttive della città e ai cittadini».
Ma i bilanci di Roma continuano a essere gravati da 4,8 miliardi di spesa corrente (dato 2019), quasi il 91% della torta, complici anche i buchi nella riscossione. E le cifre sugli investimenti, nonché la loro programmazione, continuano a mostrare distanze siderali rispetto a quelle di Londra, di Parigi e delle altre capitali europee. Così le manutenzioni continuano ad arrancare. Vale per le strade dissestate, per colpa delle quali nel 2018 le richieste di risarcimento avanzate sono state 4.500, per un importo totale di 13 milioni di euro. Nel 2017 erano 7 milioni. E vale per il verde pubblico, funestato dal crollo degli alberi (400 nel 2018, 200 nei primi sei mesi del 2019) e dal mancato decollo del bando milionario per il «verde verticale», messo in cantiere nella primavera del 2017 e non ancora riuscito a decollare.
La macchina amministrativa del Comune ha le sue colpe, anche se prova a rigenerarsi. Dal 1° luglio 2016, come ha riferito al Sole 24 Ore l’assessore a Personale, Anagrafe e stato civile, Servizi demografici ed elettorali Antonio De Santis, sono state effettuate 3.581 assunzioni cui se ne aggiungeranno altre 1.300 entro settembre, gran parte delle quali a costo zero grazie a quota 100. Ma la burocrazia continua a ingolfare i servizi, come dimostrano i tempi lentissimi per rinnovare le carte d’identità, complice il cambiamento delle regole nazionali.
Raggi adesso rivendica le «nuove strade», le oltre «1.200 case popolari assegnate ai più fragili», le «centinaia di milioni di euro stanziati per le politiche sociali e per le attività rivolte alle persone con disabilità (come il trasporto a loro dedicato il cui stanziamento annuale è stato raddoppiato)», l’abbattimento delle villette dei Casamonica. Ma non risponde alla critica principale che le viene mossa in queste ore, non soltanto dagli altri partiti ma anche dalle categorie produttive, che ancora non le perdonano il “no” alle Olimpiadi o la vicenda tragicomica dello stadio della Roma (con l’inchiesta che ha coinvolto il costruttore Luca Parnasi, l’ex presidente di Acea Luca Lanzalone, e il presidente dell’assemblea capitolina, Marcello De Vito): l’assenza di una visione strategica di lungo periodo.
«Roma Capitale, le sue istituzioni e aziende devono tornare interlocutori credibili per tutti», recitavano le linee guida sfornate nel 2016. Ecco, questo cambio di passo che non c’è stato, questo «vento del cambiamento» che non soffia e che molti si aspettavano barrando la casella M5S sulle schede elettorali tre anni fa, oggi è la delusione più cocente. La stessa che rende la Capitale una preda più che appetibile per Matteo Salvini. E quasi indifendibile per Luigi Di Maio.
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