Giovedì 6 febbraio 2020, mentre il 54,6 per cento dei telespettatori italiani era sintonizzato sul Festival di Sanremo, e i giornalisti politici erano concentrati sul vertice in cui la maggioranza andava ufficialmente in pezzi sulla prescrizione, pochi fortunati assistevano, su La7, a un evento mai prima verificatosi nel nostro paese. Alle consuete intemerate del magistrato di grido, in questo caso Piercamillo Davigo, che a Piazza Pulita esponeva la sua visione dei problemi della giustizia – riassumibili nell’esistenza degli avvocati e nell’esistenza dei politici – seguivano delle obiezioni. Avete capito bene: era lì presente, davanti a lui, con diritto di replica, un avvocato – in questo caso, che poi è anche l’unico caso, Gian Domenico Caiazza, il presidente dell’Unione delle Camere penali – dunque un avvocato che non era un legale di Silvio Berlusconi, né un politico di Forza Italia (ammesso che in Forza Italia una simile separazione delle carriere sia mai entrata in vigore). In altre parole, c’era un signore che parlava dei problemi della giustizia italiana da un punto di vista che non era né quello della pubblica accusa né quello della personale difesa di Berlusconi. Una terza via di cui fino a ieri buona parte degli italiani, e sicuramente la stragrande maggioranza dei lettori di giornali e degli spettatori di talk show, nemmeno poteva immaginare l’esistenza.
Siccome però la rivoluzione non è un pranzo di gala, come diceva Mao, e comunque in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti, come diceva Leo Longanesi, oltre ai due contendenti Corrado Formigli ha invitato anche Antonio Padellaro. «Vieni a darmi una mano», dice il conduttore facendolo entrare, ma è fin troppo chiaro che non è lì per dare una mano a lui. E infatti si siede giusto accanto a Davigo, al quale peraltro non si sognerà neppure per un attimo di rivolgere non dico un’obiezione, ma nemmeno una domanda.
In compenso, legge con voce grave le parole del presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Viareggio, uscito gravemente ustionato dalla tragedia, che protesta contro la prescrizione dell’incendio colposo (non dei reati più pesanti alla base della strage) e chiede di cosa sono morti allora i loro figli. Segue, lungamente preparata, la domanda a effetto: «Ecco, avvocato, di cosa sono morti i figli che sono periti in questa strage e in tutte le altre stragi che purtroppo hanno punteggiato la vita di questo paese?». E ancora: «Chi difende le vittime in questo paese?». Domanda retorica e immancabile, che è il principio base del populismo penale: più è grave il crimine, più è odiosa e ingiustificata qualsiasi garanzia a tutela dell’accusato; quasi che difendere i diritti dell’accusato fosse già di per sé un’offesa alle vittime; quasi che si dovesse scegliere tra difendere le vittime e difendere i diritti degli accusati.
A questo inizio scoppiettante, Padellaro aggiunge poi una veemente affermazione dell’assoluta costituzionalità della legge Bonafede, con l’argomento che il presidente della Repubblica l’ha firmata, perché altrimenti, se avesse notato quegli «elementi di incostituzionalità che andate sbandierando» – voi avvocati, s’intende – avrebbe fatto le sue osservazioni (tanto varrebbe chiuderla, la Corte costituzionale).
Questi però sono dettagli, cui siamo peraltro abituati da decenni. La sensazionale novità sta nel fatto che all’affermazione di Davigo secondo cui in Italia nessuno va mai in galera, tanto che uccidere la moglie è più conveniente che divorziare, non seguiva uno sghignazzo del conduttore, ma una domanda: quando mai? In quale processo è mai accaduta una cosa simile? (nella sua sublime replica, Davigo citava il caso di un assassino cui era stata riconosciuta la seminfermità mentale: grazie tante). La sensazionale novità sta nel fatto che all’affermazione di Davigo secondo cui il modo per accelerare i processi è stabilire una sorta di responsabilità civile dell’avvocato per i ricorsi infondati, non seguivano i complimenti degli altri ospiti presenti, ma la ragionevole controproposta dell’avvocato Caiazza, che diceva in sostanza: per noi andrà benissimo, quando i pubblici ministeri risponderanno per gli arresti ingiustificati e le inchieste infondate con cui possono fare danni assai più pesanti di quanti ne possa fare un ricorso che, se è infondato, è giudicato inammissibile e finisce lì. La sensazionale novità sta nel fatto che, alla quotidiana ripetizione di tutti i soliti ritornelli secondo cui i problemi della criminalità, della corruzione e dell’insicurezza dipendono dal fatto che ci sono troppi diritti per la difesa e troppi politici che ne approfittano per farla franca, c’era qualcuno che rispondeva.
Per farla breve, giovedì sera su La7 è andato in onda un nuovo format televisivo. Un format che fino a oggi, nonostante i magistrati occupino i mezzi di comunicazione ventiquattro ore su ventiquattro perlomeno dal big bang politico-giudiziario del ’92 in poi, con loro, nessuno aveva mai sperimentato prima: il contraddittorio.
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