C’è un modo semplice semplice, un tempo si sarebbe detto un modo riformista, per provare a proteggere quel che è rimasto del discorso pubblico e per salvaguardare i processi democratici dell’Occidente, in attesa che la politica esca dal XX secolo, entri nella nuova èra e cominci finalmente ad affrontare le sfide della rivoluzione tecnologica in modo adeguato ai tempi.
Lo strumento non è la censura dei contenuti che i social veicolano sulla rete, anche se prima o poi le istituzioni si convinceranno della necessità di separare le piattaforme tecnologiche dai fornitori di informazione, e di conseguenza di rendere questi ultimi responsabili delle disinformazioni che fanno circolare. Non è nemmeno il divieto di ospitare pubblicità elettorale fraudolenta, come è stato chiesto a Mark Zuckerberg al Congresso degli Stati Uniti (e come ha scelto di fare Twitter), nonostante la bizzarra tesi di Facebook secondo cui è sbagliato censurare la pubblicità politica a pagamento, compresa quella palesemente falsa, perché sarebbe una violazione del principio costituzionale della libertà di espressione, mentre invece non lo è passare al setaccio le panzane dei cittadini semplici e degradare con l’algoritmo il ranking delle fake news private, come se quelle gratuite confezionate dall’uomo di strada fossero più gravi di quelle a pagamento diffuse dal presidente degli Stati Uniti o da altri politici e su cui Facebook, soltanto in America, ha guadagnato 857 milioni di dollari tra il maggio dello scorso anno e il mese scorso.
Lo strumento per cercare di riconquistare un minimo di agibilità politica alla libera competizione tra le idee, e per difendere i processi democratici dall’ingerenza delle forze del caos, è il divieto di microtargeting politico cioè impedire alle campagne politiche di comprare dai social network la possibilità di aggredire profili dettagliatissimi di elettori cui mostrare testi, grafici, gif e video sartorialmente cuciti intorno a segmenti di votanti molto definiti e ritenuti particolarmente influenzabili dal loro messaggio. È il metodo per fuggire dalla trappola del modello di business delle piattaforme che somiglia alle gabbie d a esperimenti per topi grazie alle quali gli scienziati sono in grado di anticipare le scelte delle cavie e di determinarle in base agli stimoli trasmessi. Ora le cavie siamo noi e, come ha denunciato il pioniere di Internet Jaron Lanier, la gabbia è il meccanismo decisivo per la manipolazione dell’opinione pubblica a fini elettorali, perché consente di cucire le fake news intorno a un target specifico di elettori, chiusi dentro la gabbia del loro social network di riferimento, per indirizzarli a comportarsi nel modo desiderato..
Di fermare il micro-targeting politico ha parlato David Carroll, il professore protagonista del documentario Netflix su Cambridge Analytica The Great Hack – Privacy violata, ma è anche una delle richieste degli impiegati di Facebook a Zuckerberg per affrontare la questione della privacy e delle infiltrazioni esterne, ma la novità è che ora questa idea piace anche a Facebook, come ha confermato l’ex vicepremier britannico Nick Clegg al sito Politico, oggi diventato alto dirigente del social di Zuckerberg. Secondo il Wall Street Journal, invece, anche Google sta valutando di farlo.
Una soluzione riformista, efficace e di buon senso da avviare prima che sia troppo tardi rispetto alle elezioni americane del 2020 e con la speranza che arrivi presto una sollevazione popolare contro le fake news politiche a pagamento e, con essa, anche legislatori e leader illuminati in grado di immaginare un nuovo Codice dei diritti su Internet.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/11/12/fake-news-elezioni-cambridge-analytica-facebook-google-microtargeting/44324/