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Chi l’avrebbe mai detto? Ora il problema di Salvini si chiama Nord

Matteo Salvini ha un problema. Un problema grosso. È il problema del nord leghista che vuole l’autonomia. E che invece – come nel miraggio di Fata Morgana che sparisce quando credi d’averla afferrata – sfugge sempre un metro più in là. Il problema di Salvini, dicevamo, è che i quadri del Carroccio, da Bologna in su, pensano che la responsabilità dell’autonomia che non viene mai sia proprio di Salvini, che ha sacrificato le ragioni del nord all’alleanza con i Cinquestelle e alla logica d’un partito di destra nazionale. Partito che se vuol continuare a macinare consenso anche nel meridione deve scordarsi un po’ della sua storia e delle sue priorità.

Però il nodo ora viene al pettine. Se infatti il cammino dell’autonomia regionale sembra aver fatto in queste ore un passo avanti rischia tuttavia di farne due indietro. Si certo, c’è l’impegno a riportare in Consiglio dei ministri la questione e arrivare ad intese intanto con Emilia-Romagna Lombardia e Veneto ma il contrappunto dei Cinquestelle suona come un nuovo stop.

Perché i grillini, che pure hanno sottoscritto il contratto di governo, dove l’autonomia è prevista, si stanno di nuovo rimettendo di traverso. Luigi Di Maio è stato tempestivo a mettere un macigno sui binari del treno che sembrava aver ripreso a camminare: la sortita sulla necessità di legare la realizzazione dell’autonomia a un grande piano per il sud – “All’Italia tutto serve tranne un ulteriore divario tra nord e sud – rappresenta un chiaro altolà. Un diversivo che minaccia di bloccare di nuovo un iter che di nuovo in stop da febbraio.

Rischio che ha subito compreso il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ansioso di portare a casa l’autonomia, sempre rimandata dopo il referendum del 2017, prima che cominci la campagna elettorale per le regionali del 2020.

E così Zaia si è affrettato a replicare a Di Maio ricordandogli che “Un Piano per il Sud esiste già” e che non “c’è nessuna visione ostracista nei confronti del meridione, nessuna volontà di disegnare un paese di serie A e uno di serie B, ma solo di applicare la Costituzione”. La pressione in Veneto è forte. L’ala radicale dell’autonomismo fa pressione sui deputati espressi dalla regione minacciando, in caso di nuove procrastinazioni, mobilitazioni civili a due anni dal referendum tradito.

Salvini sente la pressione e a sua volta spinge, accusando non meglio precisati burocrati di mettere i bastoni tra le ruote. Ma i tempi, malgrado gli esibiti ottimismi, si preannunciano lunghi e il cammino irto di difficoltà e imprevisti. Anche in presenza di un via libera del Consiglio dei ministri infatti il testo sull’autonomia dovrà passare nelle commissioni parlamentari, sottoposto a dibattito e poi trasformato in disegno di legge per poi finalmente essere votato alle Camere. Un percorso travagliato compiuto il quale bisognerà vedere quali e quante resteranno le materie effettivamente devolute alle regioni. Salvini insomma è tra due fuochi: i suoi che spingono per fare l’autonomia “presto e bene” e l’alleato di governo che invece rallenta, chiede garanzie, manda messaggi rassicuranti al sud, la sua cassaforte elettorale, e fa melina sul portare il provvedimento già nel prossimo Consiglio dei ministri.

Posizione delicata quella di Salvini, anche perché non è questo il momento per tornare a divaricare il fronte dell’esecutivo che si appresta a una durissima trattativa con l’Europa. Ma come si diceva la pentola è in ebollizione. Tanto più che il nord leghista ritiene che l’autonomia che verrà concessa sarà minima, un’autonomia a costi standard, con l’elargizione di qualche competenza ma senza il succo che è poi quello dell’autonomiaimpositiva e dell’introduzione di fabbisogni standard che chiede l’ala dura nordista.

A un convegno dell’altro ieri a Milano – tra gli altri era presente il dissidente Gianni Fava, ex assessore regionale leghista dell’Agricoltura – sono state proprio queste le rivendicazioni fatte: autonomia impositiva e introduzione di fabbisogni standard che servirebbero “appena a risarcire – come è stato notato – appena la metà del residuo fiscale regionale, 56 miliardi all’anno”. L’accusa alla Lega è aver smobilitato sul federalismo accontentandosi di un’autonomia di facciata, un tema molto divisivo nel Carroccio che ha generato negli ultimi mesi abbandoni e tensioni interne.

Ma non c’è solo l’autonomia depotenziata e ritardata a mettere a rumore il nord leghista e indisporlo verso la leadership salviniana. A preoccupare ceti produttivi e imprese settentrionali sono anche i venti di guerra con l’Europa. Perché il ceto produttivo del nord è inserito nelle catene di valore europeo dalle quali non ha nessuna intenzione di rischiare di uscire. Come avverrebbe di fronte agli esiti imprevisti di una eventuale procedura di infrazione. Da qui anche il ripetuto tentativo, negli ultimi mesi, del numero due leghista Giancarlo Giorgetti – che di questi mondi è un interfaccia importante – di frenare certe accelerazioni salviniane e mettere in discussione l’alleanza coi Cinquestelle. In nome delle priorità del nord che ora invece si sente tradito dalla torsione nazionalista della Lega.

E d’altra parte la coperta politica di Salvini è corta: se la tira verso il nord si scopre il sud e viceversa se la spinge verso il sud a restare scoperto è il nord. Un dilemma inevitabile per un partito divenuto nazionale. Ma chi l’avrebbe mai detto che la spina nel fianco di Salvini sarebbe stato il nord.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/06/22/salvini-lega-nord-autonomia-cinque-stelle-europa/42626/

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