La domanda ora è se la grande bonaccia nazarena lascerà il posto a una fase più matura di iniziativa e discussione. Nicola Zingaretti ha provato a smuovere le acque indicando l’approdo del Congresso, un appuntamento immaginato da tempo (doveva essere lanciato al convegno di Bologna di novembre ma poi il segretario rinviò). È Goffredo Bettini, il grande mentore del segretario, ad aver insistito perché “Nicola” rompesse gli indugi, superando le sue titubanze a ricandidarsi per rafforzare la sua leadership un po’ in ombra.
Già a ottobre Bettini si dovette impegnare per dissuadere il suo pupillo dal mollare. All’epoca Zingaretti avrebbe desiderato siglare il patto di governo con Di Maio, accettando Conte come premier, e poi dimettersi: «Come fece Bruno Trentin – spiegava – quando firmò suo malgrado per la cancellazione della scala mobile e subito dopo lasciò la Cgil». Lasciando il campo ad un grosso calibro come Enrico Letta.
A dire la verità, l’attuale numero uno del Nazareno nell’intervista al Corriere della Sera non ha detto esplicitamente che si ricandiderà alle primarie (che sono, anche nella nuova versione dello statuto, l’approdo finale dalla campagna congressuale), e tuttavia i suoi uomini sono arciconvinti che “Nicola” non abbia alternative.
Già, chi potrebbe sfidarlo nei gazebo? La geografia attuale del Pd, diversamente dal passato, non contempla una chiara distinzione fra maggioranza e minoranza. Gli avversari di Zingaretti alle ultime primarie (marzo 2019) erano Maurizio Martina, allora “segretario reggente”, e poi sostenitore leale del segretario, e l’altro era Roberto Giachetti, che se n’è andato con Renzi. Non c’è stata poi la costruzione di una vera opposizione strutturata: per questo oggi non c’è un avversario naturale del segretario.
L’uomo nuovo che potrebbe sfidare Zingaretti è Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo, punto di riferimento di tutta un’area liberal e riformista che si trova molto nella componente di Guerini e Lotti “Base riformista” e degli eredi di quella che fu la corrente veltroniana, nonché dei non molti gentiloniani (ma è da vedere se il Commissario europeo sia disposto a dare una precisa indicazione sul da farsi, insomma, a partecipare attivamente al congresso del suo partito). Gori si è fatto di recente notare almeno in due occasioni. La prima, al convegno di Bologna, quando contestò una linea da lui giudicata troppo spostata a sinistra, insistendo sulla questione della creazione della ricchezza e lamentando il pericolo di non parlare più al Nord e alle zone economicamente produttive del Paese. E la seconda quando ha scritto con Enrico Morando e Lia Quartapelle un articolo in difesa del doppio turno contro ogni tentazione proporzionalistica.
Il punto cruciale riguarda l’altra grossa corrente, “Areadem”, che fa capo a Dario Franceschini e Piero Fassino. È tutta composta da gente che ha votato alle ultime primarie per Zingaretti e con lui ha stretto un patto cementato poi dalla vicenda del governo giallorosso, nel quale la corrente è stata molto premiata.
Ma da “Areadem” potrebbe venire avanti il nome di una donna, un nervo permanente nella vita del Pd, un partito che non ha mai avuto un leader donna. L’unica papabile sembrerebbe Roberta Pinotti, in passato vicina a Fassino, ex ministro della Difesa. Per lei però è ipotizzata anche la carica di presidente del Pd, poltrona rimasta vacante dopo le dimissioni di Paolo Gentiloni.
All’opposizione in realtà c’è solo Matteo Orfini, che con il segretario non ha mai avuto un rapporto positivo, ma non sembra avere né voglia né truppe per scendere in campo personalmente. Tuttavia, attenzione alle sue mosse. Orfini potrebbe aprire canali con altre aree in nome di battaglie identitarie che sta portando avanti con forza come quella sull’immigrazione, e non manca di sottolineare di essere assai poco convinto dell’alleanza con i grillini che è alla base del governo Conte. È un’area “di sinistra” che al momento non ha un nome spendibile.
Un altro nome che piacerebbe molto a chi non ama Zingaretti è quello di Beppe Sala, stimatissimo sindaco di Milano. Ma è un nome in pista per un’altra partita, quella di premier. Ed essendo stata fissata dal nuovo statuto del Pd l’incompatibilità fra la carica di segretario e quella di premier ecco che quella di Sala al Nazareno è poco più di una suggestione.
L’ultima carta l’abbiamo tenuta per ultima perché è proprio una novità. Una carta che ha le fattezze di Stefano Bonaccini. Se dovesse vincere la battaglia di Stalingrado del 26 gennaio in Emilia-Romagna, Bonaccini diventerebbe l’uomo che avrebbe salvato il Pd dall’ennesima sconfitta e forse la sua stessa ragion d’essere. Certo, fare il segretario e contemporaneamente il presidente di una regione così grande e complessa, specie pochi mesi dopo essere stato eletto, sembrerebbe già escludere questa possibilità, anche se proprio Zingaretti somma la carica di segretario con quella di presidente di regione. Ma se il Congresso dovesse tenersi più in là, ecco che Bonaccini avrebbe più chances. Forse, chissà, è anche per questa ragione che Zingaretti, contrariamente alla sua indole, ha voluto bruciare i tempi.
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