Domenica notte è nato il primo governo Salvini. No, non lo vedremo giurare nella sala degli specchi del Quirinale – al più, forse, assisteremo a un piccolo rimpasto -, ma nei fatti dalle elezioni europee che hanno sancito nero su bianco che la Lega vale due volte i Cinque Stelle è come se fosse nata una nuova maggioranza, con nuovi rapporti di forza, un nuovo programma e un nuovo orizzonte temporale.
È stato lo stesso leader leghista a ricordarlo, già nella conferenza stampa della notte del 26 maggio, snocciolando Tav, autonomia e riduzione delle tasse come primi punti in agenda del nuovo esecutivo. Ricordando che saranno mesi di difficoltà economiche, dove si dovrà spendere per rilanciare l’economia, con buona pace della Commissione Europea e delle “letterine” che pare siano già in arrivo, a mo di comitato di benvenuto. Lo stesso Di Maio, nella sua conferenza stampa, non ha fatto che prendere atto delle richieste del Capitano: «Faremo da argine», ha promesso, senza crederci troppo nemmeno lui.
Il problema è che l’argine non esiste. Salvini oggi ha un’arma carica con due pallottole e due governi tra le mani: quello coi Cinque Stelle, di cui si è dichiarato alleato leale – tradotto: se non fossi una persona leale, potrei mandarvi a casa in due secondi netti -, e quello con Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, che uscirebbe dalle urne se si votasse domani. Al netto dei due partiti di destra, nessuno in parlamento ha interesse a staccare la spina alla legislatura, men che meno i Cinque Stelle dimezzati, e Salvini lo sa benissimo. E non avrà nemmeno bisogno di ricordarlo, ogni volta che Di Maio alzerà il dito per chiedere qualcosa. Gli basterà schioccare le dita come Thanos, il super-cattivo degli Avengers, e i Cinque Stelle si ritroveranno dimezzati dal voto popolare.
Per Salvini, questo, vuol dire tanto. Vuol dire attuare l’agenda della destra con i voti parlamentari dei Cinque Stelle. Vuol dire intestarsi la svolta ungherese dell’Italia, quel mix di stimoli fiscali e autoritarismo che ha fatto la fortuna di Orban e che Salvini sogna di replicare, anche nelle percentuali alle urne. Vuol dire far pesare davvero il suo essere primo partito in Europa, imponendo la sua linea bellicosa nei confronti della Commissione che verrà, e pretendendo per sé e per la Lega un Commissario economico di peso, viatico fondamentale, pensa Salvini, per cambiare faccia all’Europa. Vuol dire tenere i rapporti con l’America di Trump e con la Russia di Putin, al netto di ogni dietrologia, i veri interlocutori geopolitici privilegiati dell’Italia secondo Matteo.
Certo, rimane la possibilità che i Cinque Stelle non ci stiano, che continuino nella loro (fallimentare, va detto) fronda interna alle politiche leghiste. Più facile, tuttavia, che si tengano stretti questa legislatura, magari per strappare qualche nomina al prossimo giro o per ricevere qualche contentino da poter vendere ai propri elettori come una vittoria politica, dal salario minimo al decreto famiglia.
A staccare la spina, tranquilli, ci penserà ancora lui, Salvini. E la data di scadenza sembra già fissata. Tarda primavera 2020, dopo le nomine, prima dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Mattarella vorrebbe fosse Mario Draghi, in uscita a ottobre dalla Banca Centrale Europea. Fino a ieri, poteva contare sul piano B di una nuova maggioranza Pd-Cinque Stelle, alla bisogna, se Salvini si fosse mostrato riluttante. Ora non può eleggere il nuovo inquilino al Colle senza il placet leghista. E Salvini sa bene che quando sarà il momento, il suo 34% dovrà avere teste e scranni veri in Parlamento. La madre di tutte le trattative comincerà quel giorno. E sarà li che capiremo che destino avrà in mente per l’Italia il suo nuovo padrone.
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