Sono le 20,00 in punto quando il presidente Mattarella dopo la giornata di consultazioni con le forze politiche si presenta, corrucciato, davanti alle telecamere. Un messaggio secco e conciso che si riassume in tre punti. Primo: la concessione di un supplemento di tempo, richiesto dagli attori in campo per far maturare le iniziative in corso mirate all’intesa per una nuova maggioranza di governo. Secondo: ci sono – dice Mattarella – anche altre forze politiche che hanno chiesto la possibilità di fare “ulteriori verifiche”. Terzo sono “possibili soltanto esecutivi che ottengano la fiducia, con valutazioni e accordi dei gruppi parlamentari, su un programma per governare”. E che, “in mancanza di queste condizioni, la strada è quella di nuove elezioni”.
Tre punti che sono tre nodi. Il tempo supplementare della crisi dice di un accordo che ancora non c’è tra Pd e Cinquestelle. La richiesta di altre forze politiche di distendere il timing dice che la porta di un riavvicinamento tra Salvini e Di Maio non è ancora definitivamente chiusa. La minaccia dell’alternativa elettorale – decisione che Mattarella come ha detto non prenderebbe alla leggera – dice che al Quirinale finora non è arrivato nulla che assomigli alle serie condizioni di intesa che Mattarella pretende.
Situazione ferma dunque: tempi lunghi, tatticismi esasperanti, fasi di studio, delegazioni che fanno la spola tra una sede di partito e l’altra: una rappresentazione che, per chi ha qualche anno addosso, ha l’effetto straniante d’un deja vu. Potrebbe essere l’estate del 1979 o del 1981 e questa potrebbe essere, per le forme i tempi con cui si svolge, una crisi di governo della prima Repubblica, dove tutto converge al centro. Con buona pace di più d’un decennio di bipolarismi muscolari e della nouvelle vague populista che avrebbe spazzato via le vecchie categorie politiche: destra, sinistra, figurarsi il vecchio centro.
E invece proprio il centro, inteso come centro politico, l’entità di cui tutti lamentavano o festeggiavano la scomparsa, è più vivo oggi di quanto lo sia mai stato. Scomparsa la Dc il centro è diventato un magnete ancora più potente: oggi il centro è ovunque e la sua circonferenza in nessun luogo. Come ovunque sono i democristiani che alla crisi vogliono dare una spinta naturalmente centripeta. A officiare il rito di questa crisi e ad arbitrarla, con assoluta impeccabilità, è del resto il democristiano Sergio Mattarella mentre ad averla prefigurata, prospettandone la possibile soluzione con l’accordo Cinquestelle-Pd, è un altro democristiano doc quel Dario Franceschini che da mesi a Montecitorio, insieme a Beppe Fioroni, altro Dc di lungo corso, disegnava lo scenario che oggi si squaderna davanti ai nostri occhi.
E a suo modo democristiano è Matteo Renzi, già Margherita prima d’essere segretario e premier del Pd, che a sorpresa di tutti e clamorosamente ha interrotto la marcia di Salvini verso le urne chiamando il Pd all’accordo con Luigi di Maio per un governo di responsabilità nazionale. E che oggi, tramite i suoi, accusa segreteria e presidenza Pd di voler far saltare l’accordo per andare al voto e dare il turn over alla pattuglia Pd alle Camere. È democristiano Gianfranco Rotondi che in Forza Italia chiede a Berlusconi di dare al possibile governo giallorosso anche una gamba moderata schierando Forza Italia per le larghe intese, ed è democristiano Gianni Letta che più semplicemente al Cavaliere chiede retoricamente “Perché noi no?”
Ma il più democristiano di tutti in questa crisi di mezza estate è Luigi Di Maio, che era bambino quando c’era la Dc ma che si muove in questo stato di sospensione come un pesce nell’acqua sua. Non chiude nessuna porta, non dice né tace ma come l’oracolo allude, modula toni e richieste, è attento alla scacchiera parlamentare ma ancora di più agli equilibri interni al suo partito. Telefona a Zingaretti chiede quale sia l’orizzonte ma poi pone il taglio dei parlamentari come conditio sine qua non dell’intesa e uscito dal colloquio con Mattarella non cita il Pd nemmeno per disgrazia. Tanto da autorizzare il leader leghista Salvini a non disperare sul fatto che Di Maio non avrebbe tutta questa fretta di allearsi al governo con il Pd. E il fallimento della trattativa giallorossa nei desiderata leghisti riporterebbe fatalmente a un confronto costruttivo tra grillini e Carroccio.
E d’altra parte i Cinquestelle oggi si ritrovano quasi geograficamente al centro del gioco politico, sono l’ago della bilancia di questa crisi, sono loro il passepartout di soluzione della crisi, loro a essere l’invariabile della politica dei due forni. Di cui, come si ricorderà, era teorico Pierferdinando Casini. Sì certo, anche lui democristiano. Si possono anche fare ironie ma è un fatto che se la crisi troverà uno sbocco e una soluzione in Parlamento lo si dovrà al lascito politico culturale della Dc. Che ha assorbito anche il partito che voleva aprire il parlamento come una scatoletta di tonno e il suo capo politico, quel Luigi Di Maio che un anno fa minacciava l’impeachment a Mattarella. Il centro come grande magnete, il luogo dove tutto ricomporre e decantare. Dove anche Salvini, che chiede tardivamente a Di Maio di tornare amici per governare un altro poco assieme, oggi vorrebbe stare.
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