Un piano lucido, ponderato, realizzato passo dopo passo, in modo impeccabile, spietato. La scissione che Matteo Renzi prepara nel Pd – e ormai il dado sembra tratto – non è un’improvvisazione o un fallo di reazione. Renzi si prepara al suo terzo avvento politico. Dopo la conquista del Pd al grido di “Rottamazione!”, dopo i mille giorni di governo interrotti dalla sconfitta al referendum costituzionale, siamo alla vigilia della fondazione del partito personale – il Pdr, il partito di Renzi – una formazione liberal-riformista che vuole generare un centro magnetico nel quadro politico in grado di aggregare forze moderate, laiche, liberali e cattoliche. Un partito agile, snello, europeista, sul modello di En marche di Emmanuel Macron.
Un partito diverso dal Pd. Tanto che la scissione – malgrado gli appelli dei maggiorenti dem a desistere per non indebolire il partito e mettere a rischio la tenuta del governo – appare inevitabile. Non è un’idea che nasce oggi, non è un atto improvvisato. È il compimento d’una strategia su cui Renzi ha meditato a lungo e che ha a che fare con la lunga durata del conflitto, mai interrotto, tra l’anima tradizionale del Pd – erede della vecchia “ditta”, secondo la definizione di Bersani – e quella liberal (e cattolica) a cui Renzi aveva tentato di far approdare i dem.
I più attenti alla controversa storia del Pd degli ultimi anni ricorderanno la furente polemica agostana di cinque anni fa quando il teodem Beppe Fioroni lanciò l’idea di dedicare la festa dell’Unità ad Alcide De Gasperi, suscitando un vespaio polemico nell’area tradizionale ex Pci del partito, che rispondeva rivendicando al proprio Pantheon in Togliatti e Berlinguer, non Alcide De Gasperi. Renzi si guardò dall’intervenire nella polemica ma nemmeno smentì Fioroni e un suo fedelissimo, Giorgio Tonini, disse che l’idea era buona e opportuna.
La vecchia ditta non è mai stata la casa di Renzi. Ci pensa da tempo l’ex premier a una sortita in solitaria e da tempo la prepara: da almeno un anno sono attivi i comitati civici “Azione civile” – ispirati ai comitati civici di Luigi Gedda del ’48 – una rete dispiegata su scala nazionale che conta almeno diecimila aderenti. L’embrione di quanto oggi si sta formalizzando meglio.
Un piano che passa attraverso la piccola marcia nel deserto dopo le dimissioni da premier e segretario del Pd successive al referendum perduto, il rientro in Parlamento da senatore semplice ma con la maggioranza dei gruppi parlamentari amica, l’agitazione continua contro ogni tentazione di alleanza tra Pd e Cinquestelle e poi il colpo di scena che ribalta tutto: la chiamata alla responsabilità per un governo di salute pubblica contro l’estremismo leghista. Una mossa del cavallo che in un colpo solo mette all’angolo l’incauto Salvini e obbliga Zingaretti a sottoscrivere con i Cinquestelle un patto di governo. Lo stesso a cui Renzi s’era fino al giorno prima opposto.
Senza il fuor d’opera renziano d’agosto la proposta di Franceschini sulla necessità di un’intesa giallorossa sarebbe rimasta una teoria. Con Renzi è diventata prassi di governo in poche settimane. Ma per Renzi il governo Pd-Cinquestelle è solo un momento dialettico della sua marcia che ha un’altra meta, più ambiziosa: la costituzione attraverso la creazione d’una nuova forza d’uno spazio al centro sulla scena politica. Un luogo che potrebbe essere altamente attrattivo per molti attori politici in cerca d’autore, come la sinistra moderata o i laici e centristi di Forza Italia, insofferenti alle virate filo-leghiste ma soprattutto proiettata a intercettare quell’area vasta del voto moderato. La stessa che aveva guardato a Renzi negli anni del suo consenso, dandogli il 40,8% alle europee del 2014.
L’accelerazione di Renzi è dettata da diversi fattori. In primo luogo il riproporsi all’interno del Pd del confronto fatale con gli uomini della vecchia ditta vicini a Zingaretti ma più ancora, come nel caso di Roberto Speranza, ministro della Salute del Conte-bis, a Bersani e Massimo D’Alema: l’antagonista di sempre. In secondo luogo la prospettiva d’una riforma elettorale proporzionalista che potrebbe agevolare lo spazio del centro riportando in quel luogo le determinazioni delle future maggioranze. In terzo luogo la possibilità di condizionare il governo giallorosso da una posizione di assoluta autonomia.
Infine, ultimo ma non ultimo fattore, l’esigenza di bruciare sul tempo l’iniziativa di Carlo Calenda che già all’indomani dell’accordo tra Zingaretti e Di Maio per il Conte-bis ha varato un progetto liberal-riformista. Un progetto ambizioso, lucido e spietato. Immaginato e ordito da una psicologia, quella di Renzi, insofferente alle seconde file, incline alla leadership e al rischio, portata all’offensiva più che alla conservazione. Spietata nell’eseguire il piano d’azione immaginato. Di Renzi questi tratti son stati insieme la rosa e la spina: ma a negargli capacità di mobilitazione non ci pensano nemmeno i più feroci detrattori.
Sui tempi e i modi della scissione (molto probabile per alcuni, sicura per altri) ci sono ancora nodi da sciogliere: deputati anche renzianissimi sono incerti sull’iniziativa. Ma gli uomini vicini all’ex premier assicurano che l’operazione è coperta e si farà. E sarà la Leopolda del prossimo 20 ottobre, storica rampa d’ogni iniziativa renziana, il luogo da cui comincerà la nuova marcia di Matteo.
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