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Cinque Stelle spaccati in cinque anime. Ora il Senato è la vera polveriera

Cinque Stelle per cinque «anime», tanto per citare la parola usata per la prima volta da Luigi Di Maio all’indomani della cocente sconfitta alle europee di domenica. Correnti fluide, strati spesso sovrapposti che fanno capo allo stesso Di Maio, ad Alessandro Di Battista, a Roberto Fico, al garante Beppe Grillo e soprattutto a Davide Casaleggio, il potente presidente dell’Associazione Rousseau. Fenomeni carsici sotto traccia che però adesso, in un clima avvelenato dai sei milioni di voti persi in un anno, affiorano in superficie lasciando intravedere il rischio erosione e, a cascata, quello di crisi per il Governo.

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Molto più al Senato che alla Camera: Palazzo Madama è la vera polveriera. Là martedì è montata la protesta più evidente, cavalcata all’esterno, secondo i maligni, da Di Battista. E anche la più pericolosa, perché è sempre al Senato che i numeri della maggioranza sono sul filo: appena quattro voti di scarto, dopo le espulsioni dal M5S di Gregorio De Falco e di Saverio De Bonis.

Al centro della galassia pentastellata c’è lui, il capo politico due volte ministro (del Lavoro e dello Sviluppo economico) che ha affidato la «conferma» della sua leadership politica al voto degli iscritti sulla piattaforma Rousseau. Può contare sulla fedeltà dei ministri Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro, Danilo Toninelli, Giulia Grillo, Barbara Lezzi, della viceministra all’Economia Laura Castelli e di gran parte dei sottosegretari, da Vincenzo Spadafora (consigliere ascoltatissimo) a Mattia Fantinati, da Carlo Sibilia a Claudio Cominardi, fino a Lorenzo Fioramonti. Vicini al leader anche i capigruppo Francesco D’Uva (Camera) e Stefano Patuanelli (Senato), finito però sul banco degli imputati per le difficoltà di tenere compatti gli eletti. A favore di Di Maio, oltre alle sindache Raggi e Appendino e complici le sollecitazioni della squadra della comunicazione, si sono espressi vari deputati, tra cui Emilio Carelli, Anna Macina, Vittoria Baldino e Sergio Battelli. Ai senatori è servito un surplus di sollecito, e sono partiti tra gli altri gli attestati di fiducia di Daniele Pesco e di Paola Taverna.

Proprio da Taverna, però, passando da Roberta Lombardi che ha contestato apertamente «l’uomo solo al comando», e complice il comune spirito barricadero, parte il filo che porta a Di Battista, in ottimi rapporti con gli esponenti degli Esteri, come il sottosegretario Manlio Di Stefano. Il sospetto dei “dimaiani” è che ci sia lui dietro la fronda dei senatori, culminata con l’attacco di Gianluigi Paragone, secondo cui Di Maio ha troppi incarichi mentre al M5S serve «un leader h24». Dopo il terremoto, Paragone ha deciso di consegnare le sue dimissioni a Di Maio. In assemblea ha spiegato che si riferiva agli incarichi da ministro e non a quello di capo politico. Martedì si era dimesso da vice capogruppo un altro senatore: Primo Di Nicola.

Di Battista in un lungo post su Facebook si è limitato a esortare gli attivisti a resistere dopo «la scoppola più grande della nostra vita» e il «mucchio di cazz… politiche, strategiche e comunicative fatte». Non cita Di Maio, ma lancia un invito agli ex colleghi: «Chi è in difficoltà va sostenuto, dicendogli in faccia cosa non è andato bene e proponendo cambiamenti».

Nel frattempo, però, complice l’ultimatum di Matteo Salvini (se prevale la linea barricadera di “Dibba” il Governo chiude i battenti), sono intervenuti a blindare Di Maio Grillo e Casaleggio. Al garante del M5S sono rimasti molto legati sia il senatore Nicola Morra sia la deputata Carla Ruocco, che martedì aveva invitato Di Maio a dimettersi e a riflettere sull’opportunità di proseguire con il Governo. Dato il filo diretto con Grillo, qualcuno ci aveva letto il suo avallo. Ma ieri il comico ha chiarito: «Luigi deve continuare la sua battaglia. La minaccia non viene da dentro, nessuna espiazione». A riprova della mobilità delle cinque «anime». E del rinsaldarsi dell’asse governista.

A stretto giro, nonostante i rapporti sempre più freddi tra i due (ex) diarchi, è arrivato il plauso di Casaleggio alla scelta di Di Maio di rimettere il suo incarico al giudizio di Rousseau: «Mostra non solo coraggio, ma anche grande coerenza e rispetto di un capo politico per i principi e i valori del M5S». Peccato che la mossa sia stata letta da molti come l’ennesimo scontato plebiscito – come è poi stato – per sminare il terreno alla vigilia dell’assemblea dei gruppi di mercoledì sera. Gli uomini più vicini a Casaleggio restano Pietro Dettori, ex dipendente della Casaleggio Associati transitato nello staff di Di Maio a Palazzo Chigi, Massimo Bugani e il sottosegretario Stefano Buffagni. Sono loro, insieme al capo della comunicazione Rocco Casalino, anche portavoce del premier Conte, i principali trait d’union tra il figlio del cofondatore e Di Maio. Proprio Buffagni ha suggellato il rinnovato asse Milano-Genova in difesa del capo politico (e della tenuta dell’Esecutivo): «Leggete Grillo. Siamo caduti altre volte e ci siamo rialzati con più forza di prima».

C’è infine quella che viene ritenuta l’ala sinistra del M5S e che ha come punto di riferimento il presidente della Camera. Fico è stato suggerito come nuovo leader dalla senatrice Paola Nugnes, deferita da tempo ai probiviri insieme alle colleghe Elena Fattori e Virginia La Mura. Nugnes ha bollato la decisione di far votare gli iscritti su Rousseau come «la tomba di ogni tentativo di revisione» annunciando che non avrebbe partecipato all’assemblea congiunta: «Ritengo di aver già dato troppo a “questo” M5S, diventato il Pddm, il partito di Di Maio». Se dovesse abbandonare la nave sarebbe un altro voto in meno per la maggioranza al Senato. Ma fedelissimi di Fico sono anche il senatore Matteo Mantero e un nutrito drappello di deputati: nel novero Luigi Gallo, Giuseppe Brescia, Doriana Sarli, Veronica Giannone, Gilda Sportiello, Riccardo Ricciardi. E una ventina di altri ostili ai decreti sicurezza di Salvini e alla posizione del Governo sull’immigrazione. I più anti-leghisti che però finora non sono mai riusciti a organizzare una minoranza interna realmente influente.

Non mancano i battitori liberi. Come il deputato Andrea Colletti, che ha affondato: «Il problema non è Di Maio ma i lecchini a lui vicini, abbagliati dalla possibilità di diventare ministri, sottosegretari o capi di gabinetto». Colletti ne ha per tutti, dai dirigenti del gruppo («Dovrebbero essere loro a dimettersi») alla comunicazione, «totalmente deficitaria». Per salvarsi, sostiene, «dobbiamo tornare a essere quello che eravamo: un mix incredibile di rete e territorio». Una tabula rasa che però sono ormai in troppi a rifiutare. Tanto nella vecchia guardia, su cui pende la tegola del divieto dei due mandati, quanto nella massa dei peones. La soluzione proposta da Di Maio per andare avanti è quella di una sorta di “comitato dei saggi” composto dai punti di riferimento delle cinque “anime” e magari anche qualcun altro. Spetterà a loro il compito di disegnare la riorganizzazione del Movimento, tra segreteria-direttorio e coordinamenti regionali per rafforzare i territori. Sempre che un incidente di percorso non faccia implodere prima il Movimento.

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