Al tempo della crisi del 2011 non eravamo in molti, a sinistra, a parlare di «tecno-populismo». Quando il Partito democratico di Pier Luigi Bersani, sospinto da gran parte dei commentatori e dell’opinione pubblica di orientamento riformista, si schierava con Mario Monti, e buona parte della sinistra radicale si lasciava tentare dal populismo grillino (e da posizioni che oggi definiremmo sovraniste), questa sembrava ai più la divisione del campo: tecnici contro populisti.
Una narrazione perfettamente coerente con quella, che si sarebbe affermata qualche anno dopo, dello scontro tra popolo ed élite, che poi è per l’appunto il cuore della visione e del messaggio populista: da una parte i tecnocrati, le élite, la «casta» dei partiti (tutti uguali, senza distinzioni politiche o ideologiche, perché destra e sinistra sono concetti superati), dall’altra il popolo, altrettanto indifferenziato, guidato alla vittoria dai suoi unici e autentici rappresentanti (anzi, mi correggo: portavoce).
In pochi ci ostinavamo allora a sostenere che quelle non erano le due parti in campo, ma una parte sola, la parte che fondava la propria affermazione sulla delegittimazione e sulla rimozione della politica democratica, in nome della volontà indiscutibile – o se preferite delle «certezze inconfutabili» – di un’autorità superiore.
Niente definisce meglio il populismo, come è stato autorevolmente teorizzato, di questo radicale approccio antipluralista: non ci sono due o più posizioni in campo, ugualmente legittime, che si confrontano ad armi pari. Ci sono solo i buoni e i cattivi. Gli onesti e i corrotti. I portavoce del popolo e i nemici del popolo.
Il fatto che i buoni siano occasionalmente rappresentati da semianalfabeti che si fanno un vanto di non conoscere il congiuntivo o da superciliosi professoroni orgogliosi del loro gergo incomprensibile è, questa sì, una differenza superficiale, del tutto inessenziale (lo dimostra la possibilità di passare agilmente da una squadra all’altra, come ha fatto ad esempio Francesco Boccia, tra i più entusiasti sostenitori di Monti nel 2011, oggi massimo teorico, e pratico, dell’abbraccio con i grillini).
Una differenza definitivamente svanita in questi giorni, dinanzi a una nuova e più violenta crisi, con il populismo tecnico-scientifico di Giuseppe Conte. Un presidente del Consiglio voluto dai cinquestelle, che governa trincerandosi ogni giorno dietro un nuovo comitato di super esperti, per replicare a ogni critica con la voce indiscutibile della scienza.
Salvo poi rivendicare il suo ruolo politico ogni qual volta si alzi qualcuno a osservare che forse, se di un governo tecnico c’è bisogno, ci sarebbe in giro qualche tecnico anche più titolato, se non vogliamo dire più capace, da Mario Draghi a Vittorio Colao. Perché, di fatto, il governo Conte è oggi a tutti gli effetti il primo governo tecnico a guida populista della politica mondiale.
Ma che si tratti di decretare il coprifuoco su Facebook, in conferenze stampa in cui non manca mai di ripetere settanta volte sette il nome del professor Brusaferro, o di dichiarare guerra al Mes e impiccare la posizione negoziale dell’Italia agli eurobond, per timore della concorrenza interna del professor Di Battista, il senso della musica suonata da Conte non cambia.
Nessuna reale discussione è possibile, nessuna alternativa può essere nemmeno presa in considerazione, perché ogni alternativa è delegittimata in partenza. Ci sono solo i buoni e i cattivi: quelli che pensano alla salute dei cittadini e quelli che pensano al «dio denaro» (altra efficace sintesi del ministro Boccia).
Ma è un gioco troppo facile, che già mostra la corda. Con il gran casino delle task force, delle app, delle finte ripartenze, delle ipotesi fatte trapelare per vedere l’effetto che fanno e poi smentite con faccia severa in nome della responsabilità nazionale – per non parlare del Mes, su cui è ormai praticamente impossibile capire quale sia la posizione dell’esecutivo – il governo Conte ha finito per irritare anche i suoi più strenui sostenitori. Ed era inevitabile.
Per quanti comitati tu possa allestire, per quante app tu possa inventare, per quanti professori tu possa ingaggiare, alla fine non c’è esperto, tavolo, app o altra diavoleria tecnologica che possa sollevarti dal peso di decidere e dare una qualche spiegazione delle tue decisioni: perché anche alla più intelligente delle app sei sempre tu che devi dire cosa vuoi che faccia, sei sempre tu che devi stabilire dove va l’asticella tra tutela della salute e tutela della privacy, tra interesse pubblico e diritto individuale.
E dove mettere quell’asticella, non c’è ingegnere, informatico o infermiere che possa deciderlo al posto tuo, e nemmeno – stavo per dire: tantomeno – giurista, costituzionalista o amministrativista che sia.
Per non volersi prendere una sola responsabilità politica, Conte finirà così, molto presto, per prendersele tutte, anche quelle che non gli spetterebbero, o che perlomeno sarebbe giusto condividesse con i tanti che lo hanno spinto, aiutato e consigliato fin qui. Come del resto è già accaduto a Mario Monti e a Elsa Fornero. Con una differenza significativa: che loro, sia pure attraverso scelte drastiche e discutibili, hanno pur sempre tirato fuori l’Italia da una crisi finanziaria spaventosa. Al contrario di Conte.
Con il caos delle task force fallisce anche l’ultima incarnazione del professor Conte