Il governo studia l’estensione delle licenze per i padri ma il cambiamento delle abitudini passa anche attraverso le scelte dei leader
di Riccardo Ferrazza
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Il buon esempio può contribuire a far funzionare meglio una legge. Soprattutto quando il comportamento virtuoso arriva da un personaggio pubblico e, meglio ancora, da un politico. È il principio che ha ispirato ispirato Shinjiro Koizumi, il 38enne ministro dell’Ambiente giapponese (figlio dell’ex premier Junichiro Koizumi) che ha annunciato di voler prendere il congedo parentale – due settimane nel corso di tre mesi – per la nascita del suo primo figlio. Un gesto rivoluzionario per un paese in cui la categoria “decesso per troppo lavoro” (karoshi) è riportato nelle statistiche per cause di morte.
Una maggiore partecipazione del padri all’accudimento dei neonati è ora all’attenzione del governo italiano che studia la possibilità di estendere il congedo obbligatorio per la nascita o l’adozione di un figlio da 5 a 6 mesi aumentando però la quota riservata al padre: poco più di un mese (dai sette giorni attuali in vigore dal 2020). Finora, però, gli esempi ispiratori da parte dei politici-papà sono stati rari. Nel novembre 2017 Alessandro Di Battista annunciò che non si sarebbe ricandidato in Parlamento con il Movimento 5 Stelle per dedicarsi ai viaggi, alla scrittura ma anche al figlio appena nato.
In Italia non ci sono però precedenti di premier, ministri o sindaci che si prendono una pausa dal proprio incarico per restare in famiglia accanto alla madre e al pargolo. Eppure in alcuni Paesi accade da tempo. Il precursore è considerato il socialdemocratico Paavo Lipponen, che da premier nel 1998 prese un congedo di paternità di una settimana per la nascita della figlia avvenuta quando aveva 57 anni (e lo stesso fece per la secondogenita due anni più tardi). Un’usanza che nel 2011 ha finito per mettere in difficoltà il primo ministro laburista Jens Stoltenberg: due ministri (Knut Storberget, Giustizia, e Audun Lysbakken, famiglia) usufruirono contemporaneamente delle dieci settimane di congedo pagate neo papà.
Un «magnifico esempio» che spinse nel 2000 la moglie di Tony Blair, Cherie, a lanciare un appello pubblico al marito-premier perché si dedicasse al loro quartogenito Leo che sarebbe arrivato un mese dopo.
«In Finlandia – disse la signora Blair – il congedo di paternità è stato introdotto negli anni Settanta: uno statuto del quale ha approfittato anche
il primo ministro nel 1998». Blair – il primo capo di governo inglese in 150 anni a diventare padre durante il suo mandato approfittò dei consigli di Cherie e, quando nacque Leo, si concesse qualche giorno con il bebè nella residenza di Chequers in campagna. Una scelta che lo favorì nei sondaggi e che fu replicata nel 2010 dal suo successore a Downing street David Cameron per la sua terzogenita. Un tema caro al politico britannico che qualche tempo dopo giocò la carta figli per recuperare consensi: «I padri assenti – disse – vanno stigmatizzati, come i guidatori ubriachi».
Avvicinandosi al Mediterraneo si scopre che anche da queste parti qualcosa accade: nel 2006 Alberto Navarro fu il primo membro del governo spagnolo a prendere un congedo di paternità. Da “pioniere” il sottosegretario agli Affari europei invitò altri funzionari a seguire il suo esempio perché «arricchire la propria vita personale è importante e aiuta a
lavorare meglio». Pablo Iglesias, segretario di Podemos, all’inizio del lo scorso anno è stato lontano dalla politica attiva per tre mesi per usufruire del congedo di paternità: il partito è stato lasciato nelle mani della sua compagna e madre dei suoi due gemelli Irene Montero, portavoce del gruppo di Unidos-Podemos nel Congresso spagnolo. «Quando una persona è in congedo parentale non bisogna sostituirla, ma riconoscere che essere in congedo parentale è compatibile col mantenere il proprio spazio sul lavoro» ha spiegato Montero.
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