Giuseppe Conte non rappresenta in prospettiva un problema solo per il capo politico del M5s, di cui si pone quasi naturalmente e per la forza dei fatti alla guida, ma anche per il Pd e soprattutto per chi dentro il Pd immaginava un nuovo contenitore più centrista. Ossia Carlo Calenda e lo stesso Matteo Renzi
di Emilia Patta
Conte: voglio un Paese dove le tasse le paghino tutti, ma meno
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Il supporto delle cancellerie europee e ora anche l’endorsement del presidente Usa Donald Trump . Gli ottimi rapporto con il Vaticano. Il discorso al Senato contro Matteo Salvini accusato di essere sleale, antieuropeista e ossessionato dalla narrazione dei porti chiusi. E infine lo standing tenuto in tutti i giorni della crisi, quando con fermezza e autonomia rispetto al M5s si è proposto per l’interlocuzione con il Pd per aprire una nuova fase dettando anche qualche punto programmatico: taglio del cuneo fiscale, economia green, rafforzamento delle tutele sociali, autonomia “soft” per le regioni del Nord accompagnata da un piano di investimenti al Sud.
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Giuseppe Conte non rappresenta in prospettiva un problema solo per il capo politico del M5s, di cui si pone quasi naturalmente e per la forza dei fatti alla guida, ma anche per il Pd e soprattutto per chi dentro il Pd immaginava un nuovo contenitore più centrista. Ossia Carlo Calenda e lo stesso Matteo Renzi, che pure – forte dell’influenza sulla maggioranza dei deputati e senatori dem – ha avuto un ruolo importante nello sbloccare la crisi aprendo a sorpresa alla possibilità di un incontro con il M5s. Calenda ha “bombardato” fin dall’inizio l’ipotesi dell’accordo di governo con il Pd minacciando la sua uscita dal partito. Uscita arrivata poi con una lettera al segretario Nicola Zingaretti e al presidente Paolo Gentiloni (e anche Matteo Richetti, unico a votare contro la relazione del segretario, potrebbe seguirlo in futuro). «Penso che in democrazia si possano e si debbano fare accordi con chi ha idee diverse, ma mai con chi ha valori opposti. Questo è il caso del M5s. Non saranno 5 o 10 punti generici a far mutare natura a chi è nato per smantellare la democrazia rappresentativa cavalcando le peggiori pulsioni antipolitiche e cialtronesche di questo Paese», scrive Calenda citando l’Ilva, la Tav, Alitalia e i navigator.
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Eccolo, il possibile «partito del Pil» di cui parla spesso con i suoi anche Renzi. Se Calenda ha la rete di “Siamo europei”, Renzi quella più solida dei Comitati civici coordinati da Ettore Rosato oltre che una leadership personale consolidata in una fetta di elettorato. Ma la domanda ora è: con Conte a capo di un M5s trasformato in un partito europeista, pro-crescita e moderato (o anche nell’ipotesi di un partito di Conte in campo) che cosa succederà? Ci sarà ancora lo spazio nel mitico «centro elettorale»? Renzi è convinto che c’è tutta una fetta di elettorato da recuperare nel centrodestra, tra i delusi da Salvini soprattutto al Nord e tra gli elettori di Fi più moderati, già in parte rimasti a casa alle ultime europee. Ma il dubbio che dividendo il campo si finisca per lasciare più spazio al “partito di Conte” certo c’è. «Il Pd deve continuare ad essere il centro e il perno del fronte anti-salviniano ed europeista che si va profilando – è la riflessione del “liberal” Giorgio Tonini, uno dei protagonisti della stagione renziana che aveva intravisto già a inizio legislatura la possibile evoluzione europeista del M5s –. Se ci si divide per creare “il partito del Pil” si finisce per dare più spazio al ruolo di federatore che Conte potrebbe costruirsi. Il fronte riformista va difeso dall’interno».
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