Vista fuori dalla cartolina sentimentale di San Marco mezza affondata, delle calli invase dal fango, dei negozianti che improvvisano paratie di lamiera sulla soglia delle botteghe, la vicenda di Venezia conferma, con tratti persino surreali, la sciatteria millantatrice del regionalismo italiano che accompagna al massimo della rivendicazione il massimo dell’inefficienza e talvolta della cialtroneria.
La prima reazione all’acqua alta del governatore del Veneto Luca Zaia è un video-riassunto illuminante: «Ci sono cinque miliardi di euro sott’acqua, non abbiamo ancora ben capito perché non siano in funzione». Si tenga conto che fino al luglio scorso Zaia era al tavolo con Danilo Toninelli per discutere appunto del fermo dei lavori e di come sbloccarlo, rivendicando la potestà regionale sui cantieri che avrebbe dovuto essere sancita dall’istituzione di una specifica Autorithy. Difficile credere al suo stupore e alla sua presa di distanza dal progetto («Dite al mondo che il Mose è un cantiere dello Stato»), così come a quello del suo predecessore Giancarlo Galan, l’uomo finito in galera per le tangenti riscosse sul sistema-Mose che ieri ha risposto alle domande dicendo: «Solo responsabilità di Roma, noi veneti non c’entriamo niente».
E tuttavia mai come in questa circostanza tutta Italia è Paese, o meglio Regione. Dall’emergenza Xylella alla Tap, dalla ricostruzione in Abruzzo alle bonifiche di Taranto o Bagnoli fino alle falle del ciclo dei rifiuti nel Lazio o in Campania, il regionalismo italiano non è stato soltanto una fabbrica di scandali ma anche e soprattutto un infernale moltiplicatore di burocrazie inefficienti, con il suo più recente culmine in Calabria: la Regione dove è stato necessario commissariare la Sanità – principale competenza dell’ente – per evitare che finisse in bancarotta.
L’inefficienza del nostro regionalismo è cosa nota e tuttavia resta un tabù per la politica per motivi essenzialmente di consenso. Sono le Regioni il grande polmone che ha sostituito la vecchia organizzazione dei partiti sul territorio, la “macchina da voti” che raccoglie e organizza gran parte del 60 per cento degli italiani che ancora va ai seggi nonché la rete di interessi economici e imprenditoriali a cui sono legati.
E non a caso le competizioni regionali, per molto tempo snobbate come fatti locali, sono diventate l’epicentro del conflitto politico, un luogo che determina cambiamenti di tipo nazionale. In Germania o in Francia, dove peraltro le Regioni hanno poteri assai più estesi dei nostri, non si è mai visto un governo pendere dal risultato di un’elezione regionale: da noi sì, succede ogni tre mesi, e persino campagne per Regioni minuscole come l’Umbria diventano Armageddon di prima grandezza.
E tuttavia queste Regioni così assertive e questa nuova leva di Governatori così visibili, così importanti, così “personaggi” e così rivendicativi delle loro potestà – si pensi a Vincenzo De Luca, si pensi a Michele Emiliano – sono i più bravi a defilarsi quando il banco gira male. Zaia e il suo surreale «che fine ha fatto il Mose?» non è mica il solo.
Ogni alluvione, ogni terremoto, ogni dissesto legato alla mancata manutenzione del territorio, ai mancati controlli, agli appalti fatti male o alle opere finanziate e mai eseguite; ogni incendio, ogni emergenza sanitaria negli allevamenti o in agricoltura; ogni coccolatissima banca locale che fallisce, ogni grande impresa che se ne va, ogni Ilva che chiude gli altoforni perché stufa di essere aggredita dai territori a cui dà lavoro, vedrete un Governatore in cattedra, col dito alzato. A chiedersi dove sia lo Stato, la protezione civile, il ministero, Bankitalia, senza che nessuno ribatta: dicci piuttosto dove eri tu.
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